Intervistato da Sette, settimanale del Corriere della Sera, Sandro Tonali ha parlato delle sue origini e del suo modo di vedere il gioco del calcio: «Da dove vengo? Da un paese come tanti della Lombardia. C’è una forte passione per lo sport: credo sia la base per arrivare a grandi risultati nella vita».

Al paese la passione era solo rossonera. Quindi quando lei dice che vuole diventare una bandiera del Milan bisogna crederle.
«Nel mio paese, a parte i miei zii interisti, sono tutti milanisti. Mio padre mi ha condizionato, quando poteva prendeva e andava all’estero a seguire le trasferte di Champions. Mi ha trasmesso questo “milanismo” che sento forte anche ora. Non c’è stata la possibilità di arrivare al Milan a dieci anni: ci sono arrivato al momento giusto. E ci voglio restare».
Già perché lei a 10 anni era già un calciatore. C’è mai stato spazio per sognare di diventare qualcos’altro?
«Ho sempre avuto questo per la testa. A 8 anni facevo già un’ora di macchina per andare a giocare, a 10 andavo avanti e indietro da Piacenza, a 11 da Brescia. Anche per i sacrifici della mia famiglia, non avevo un piano B. Pensavo solo a diventare un calciatore».
E non ha provato altri sport?
«Qualunque altra cosa è durata… giorni. Mio fratello Enrico che ha tre anni più di me già giocava a calcio, è stato semplice trovare la cosa che mi piaceva di più nella vita».
E ora c’è spazio per altro?
«Poco, alla sera sto spesso in casa, non esco tanto».
E che fa? Dei puzzle 3D sappiamo, poi guarda serie tv? Ascolta musica?
«Serie non tanto, ma la mia preferita è stata Prison break. Mi piace guardare il tennis, sono diventato amico di Sinner, che è milanista. Musica ascolto soprattutto quella che mette Theo (Hernandez, ndr) negli spogliatoi, roba latina».
La vacanza del cuore?
«Negli Usa».
Le piace informarsi, soprattutto sulle tematiche ambientali.
«Sì, finalmente si inizia a parlarne seriamente».
La sua storia parte da un oratorio, anzi, da due.
«Abitavo proprio in mezzo. Giocavo nella squadra del San Rocco da quando avevo 6 anni, nell’altro invece andavo per divertirmi con i miei amici. Che poi sono gli stessi di oggi. Il don di allora stravedeva per me, era un appassionato di calcio e guardava spesso le partite, così ha richiamato l’attenzione di mia madre».
«Maria Rosa questo bambino è troppo bravo per giocare qui».
«Più o meno. Tramite un amico siamo riusciti ad andare alla Lombardia 1».
Una squadra di Milano, orbita Milan. Eravate lei e il suo amico che giocava portiere: vi chiamavano Holly e Benji.
«Vero, io non lo guardavo neanche quel cartone».
A questo periodo risale la famosa letterina a Santa Lucia conservata da nonna Gina, figura fondamentale per lei: «Vorrei il completo del Milan, pantaloncini, maglietta e calzettoni» e poi, oltre alla richiesta bizzarra di diventare lei stesso un santo, quella di una «maglietta dell’Inter originale o tarocca per mio zio».
«La letterina ce l’ha ancora mia nonna. La mia famiglia è stata fondamentale. Mia mamma Maria Rosa che fa la ricamatrice, mio padre Giandomenico che metteva le recinzioni agli stadi e poi mio zio, ma anche altri parenti più lontani: chi era libero si offriva di accompagnarmi a giocare».
I suoi l’hanno sempre incoraggiata? A 14 anni viveva già in un convitto da solo, non è stato semplice.
«Le cose del calcio le hanno sempre fatte decidere a me. Anche quando dopo il primo anno si è trattato di scegliere se restare a Brescia, che non era facile, mi hanno lasciato la decisione: ho capito che erano dalla mia parte».
A proposito di famiglia: pensa già a crearne una con la sua fidanzata Giulia?
«Siamo giovani. Stiamo assieme da quasi tre anni, è una brava ragazza, mi è stata vicino da quando ero alla Primavera nel Brescia. Prima siamo stati pertanto tempo amici e poi abbiamo deciso di fare questo percorso assieme».
A 10 anni al Milan non la prendono. Quando è al Brescia dopo un primo anno tra i grandi torna in Primavera. Anche un predestinato come lei deve avere pazienza?
«Una delle mie fortune è stato avere Cellino come presidente, auguro a tutti i giovani di trovarne uno così. A 17 anni tutti i calciatori vogliono giocare, guadagnare soldi. Io ho trovato Cellino che, contro tutti, ha deciso di rispedirmi 6 mesi in Primavera».
E lei come l’ha vissuta?
«All’inizio pensavo fosse una bocciatura, ma lui veniva a vedermi, a parlarmi, ho capito che lo faceva per proteggermi. Per non farmi fare il percorso di tanti che per ambizione (che resta fondamentale) si perdono. Cellino lo sento ancora spesso».
Anche al Milan parlarsi è stato un fattore decisivo per le vittorie?
«Fondamentale. Tra compagni, all’interno dello staff, tra mister e squadra. Dal primo giorno qui funziona così: nel momento in cui c’è il minimo problema anche fuori dal campo lo si dice e si risolve immediatamente. È una cosa bellissima».
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Lei però sembra uno di poche parole.
«Quando serve mi faccio sentire. Poi abbiamo già Ibra che parla molto, andare sopra di lui, oltre che difficile, è pericoloso!».
Ci spiega una volta per tutte il fattore Ibra?
«Ci conosce tutti, tiene tanto a noi, e noi a lui e questo è il momento di stargli vicino perché vive un periodo brutto».
Ma che fa?
«Parla con tutti, dal 1° al 23° convocato, trova sempre la motivazione giusta. Dopo la fine del primo tempo in una partita difficile viene a spronarci, poi se servono altri modi sa usare anche quelli…».
Un anno fa lei si è ridotto l’ingaggio per aiutare il club dopo la pandemia e agevolare il suo riscatto dal Brescia. In molti riconducono a quel gesto il suo salto di qualità. C’è del vero?
«Era la cosa giusta da fare. Il salto di qualità credo sia stata una cosa naturale: per un giocatore essere di proprietà è sempre diverso dall’essere in prestito. Non è la cosa a cui pensi andando a dormire, ma è quel particolare che da solo conta poco, però sommato ad altri fa la differenza. Se giochi male e sei in prestito magari ti preoccupi che non ti riscatteranno…».
Il suo gol alla Lazio le ha fatto capire che avevate vinto il campionato?
«Già dopo la doppietta di Giroud nel derby abbiamo capito che eravamo lì, bastava un passo falso dell’Inter o una forte testa da parte nostra. È difficile vincere le ultime cinque sapendo che ne puoi pareggiare una: ma noi andavamo in campo pensando ci fosse un unico risultato».
Anche di questo avevate parlato?
«No, questa non è una cosa di cui parli, lo senti quando giochi e basta».
Ora che ha messo un po’ di distanza dagli eventi, come vive l’impresa scudetto?
«Abbiamo capito che abbiamo fatto qualcosa di grande, più avanti ce ne renderemo conto meglio».
Non eravate favoriti l’anno scorso e non lo siete neanche adesso: in tanti mettono davanti a voi l’Inter di Lukaku e la Juve che si è rafforzata: le dà fastidio?
«Siamo soli con i nostri tifosi. Le cose che dicono, com’è stato per tutto l’anno scorso, non ci interessano. Non possiamo cambiare i pensieri della gente, certo ci fa riflettere, ma, con tutto l’affetto, non ci interessa».
Perché avete vinto voi lo scudetto?
«È stato un insieme di cose: decisivo è stato Pioli, che era in una situazione difficile quando è iniziata la nostra scalata».
Come lo descriverebbe a un compagno appena arrivato?
«È uno che, comunque vada, è sempre dalla tua parte. Non vuole proteggere sé stesso, vuole proteggere il gruppo».
Gli obiettivi di questa stagione?
«Come l’anno scorso, giocare da squadra, giocare bene al calcio senza obiettivi: anche non puntando al massimo, si arriva al massimo».
Ai tifosi del Milan che messaggio manda prima del via del campionato?
«A loro mostro il nuovo tatuaggio sulla mano: “Impossible” in nero e una lineetta rossa a cancellare le lettere -im: nulla è impossibile, questo è il mio messaggio».
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photocredits: acmilan.com