In un emozionante articolo sulle colonne della Gazzetta dello Sport, Arrigo Sacchi ha voluto ricordare con affetto Gianluca Vialli, scomparso ieri all’età di 58 anni.
Le parole di Arrigo Sacchi: “Anche Vialli… No! Sono tanti ormai… Troppi! La mente mi si affolla di ricordi, rivedo i loro volti sorridenti, penso alle loro parole: Maradona, Pablito Rossi, Mihajlovic che avevo sentito una ventina di giorni prima che ci lasciasse, poi l’immenso Pelè. E adesso pure Gianluca… Il destino sembra si sia accanito sul nostro amato mondo del calcio, anche se non è giusto dire così perché il dolore è ovunque, in ogni ambiente, in ogni gruppo, in ogni famiglia. La perdita di Vialli mi dà un dispiacere enorme. Gli ho voluto bene quand’era un calciatore, un grande calciatore. E gli ho voluto ancora più bene, se possibile, quando un giorno mi prese da parte e mi raccontò che cosa gli stava capitando. Eravamo a Milano, ricordo, a un evento organizzato dalla Gazzetta dello Sport. Mi disse: «Mister, ho un tumore». Leggevo la preoccupazione sul suo volto, ma non la paura. Probabilmente ero più scosso io ad ascoltare quella confessione che poi sarebbe stata resa pubblica quando scrisse l’autobiografia. Lì per lì cercai di fargli coraggio, anche se in certi momenti è sempre difficile trovare le parole giuste. Era una grande persona, Gianluca. Un uomo che, attraverso il calcio, ha saputo regalare emozioni. Le ha regalate da giocatore, da allenatore e da dirigente, perché io non posso dimenticare quell’abbraccio con Mancini, sul prato di Wembley, dopo aver conquistato l’Europeo nell’estate del 2021. A pensarci oggi, che mi torna davanti agli occhi quell’immagine, quel gesto mi sembra una sorta di testamento. Due amici, due fratelli che si stringono forte, gioiscono per un successo ottenuto, e nell’abbraccio è come se uno volesse trasmettere all’altro tutta la forza che ha dentro. Adesso penso anche a Mancini che in pochi giorni ha perso prima Mihajlovic e poi Vialli: è dura sopportare le prove cui l’esistenza ci sottopone”.
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Sacchi continua: “Di Gianluca, come giocatore, ho sempre avuto una stima immensa. Nella primavera del 1988, dopo aver vinto lo scudetto con il Milan, parlai con il presidente Berlusconi e gli chiesi di comprare Vialli. Non sapevamo come sarebbe stato il recupero di Van Basten dopo il lungo infortunio e volevamo costruire una squadra con giocatori italiani. Berlusconi era d’accordo e mi disse di procedere. Allora telefonai a Vialli e lo invitai a casa mia, a Fusignano, per una cena. L’appuntamento saltò, ma ci parlammo al telefono. Gianluca fu molto sincero. Era lusingato dall’offerta, ringraziava Berlusconi, però aggiunse: «Preferisco essere un protagonista in provincia che uno qualsiasi in città». Tentai di convincerlo. «Gianluca – feci -, ma tu hai tutto per essere un protagonista anche in città». E cominciai ad elencargli gli obiettivi, i progetti, i sogni che avevamo e dei quali avremmo desiderato che lui facesse parte. Niente, non ci fu nulla da fare. Lui scelse di restare alla Sampdoria, perché in quell’ambiente si sentiva in famiglia”.
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Sacchi conclude: “Poi c’è stato il periodo della Nazionale e lui decise di non vestire più la maglia azzurra. Si sono dette tante cose, in quei giorni, persino che io e lui avessimo litigato. Niente di vero. Semplicemente Vialli aveva delle motivazioni personali che gli fecero prendere quella strada, e io quelle motivazioni le ho sempre rispettate. Era un uomo molto sincero: se dava la parola, potevi stare tranquillo che non se la sarebbe rimangiata. Lo ricordo come un ragazzo estremamente simpatico, sempre pronto a fare battute con i compagni, divertente nei modi e particolarmente educato nello stile. Era sufficiente stare un po’ di tempo con lui e percepivi subito di essere di fronte a una persona intelligente, rispettosa del lavoro altrui come del proprio. Nello spogliatoio sapeva fare gruppo, trasmetteva allegria anche nei momenti più difficili e questa non è una dote comune a tutti. Vialli era un lottatore, aveva grinta da vendere ed era generoso nel suo modo di giocare. Si faceva voler bene dai compagni e dai tifosi perché in campo dava l’anima: giocava con la squadra e per la squadra. Era moderno nell’approccio al ruolo di attaccante: forte fisicamente, abile di testa e di piede, sempre decisivo in area di rigore, quando si doveva tentare un acrobazia o quando serviva un colpo di astuzia. E la squadra lo seguiva, era come se lui trasmettesse agli altri la sua volontà, la sua caparbietà, la sua tenacia. Non si dava mai per vinto e anche per questa ragione ho sperato fino all’ultimo che riuscisse a vincere la battaglia contro la malattia. Ha lottato come un leone, ha speso tutte le energie che aveva in corpo e ha cercato, anche in una situazione drammatica come quella che stava vivendo, di essere d’esempio per gli altri, per i malati come lui. Non mi ha sorpreso questo atteggiamento, perché l’ho sempre conosciuto come un ragazzo che affrontava le difficoltà a petto in fuori, senza paura. Questa volta l’avversario lo ha battuto, tutto il mondo del calcio ha perso un caro amico, ma di lui ci deve restare la grande lezione di dignità che ha trasmesso”.
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