L’addio di McAllister, la nuova stagione al Brighton e poi il Milan, Boban, Boateng, Locatelli e l’esperienza in Ucraina: a tutto Roberto De Zerbi
In una lunga intervista concessa alla Gazzetta dello Sport, Roberto De Zerbi ha parlato ancora una volta della sua filosofia di calcio: dalla nuova stagione al Brighton alla critica al modo di pensare in Italia, passando per il Milan, Zvonimir Boban, Kevin-Prince Boateng, Schiappacasse e Locatelli. Di seguito, tutte le parole di Roberto De Zerbi, alla sua seconda stagione al Brighton.

Roberto De Zerbi sull’addio di McAllister
««Puoi capire quanto è gratificante aver allenato uno che ha vinto il mondiale per me che, appena dieci anni fa, cominciava ad allenare dalla serie D? McAllister è una perdita pesante. Personalità da vendere. Più la palla scotta, più lui se la faceva dare. La sua fortuna? Un padre ex calciatore che ha giocato con Maradona e non gli fa sbagliare niente. Alla vigilia della trasferta a Newcastle gli dico: “Alex, domani riposi, stai in panchina”. E lui: “Se non vuoi vincere, allora fammi pure riposare”. Ridendo, gli ho detto: “Come personalità non arrivo di sicuro secondo a te, vai fuori dal mio ufficio”. Il giorno dopo l’ho messo in panchina. Abbiamo perso di brutto. La 10 a Enciso? Se la meritava, lo stavo martellando in allenamento. Ma prima gli ho chiesto: “A chi regalerai la tua prima maglia numero 10?”. “A mia madre”, mi fa lui. “Risposta esatta, è tua».
Nuova stagione, nuovi giocatori, nuovi obiettivi
«L’angoscia mi accompagna da sempre in questo mestiere. Al momento stiamo iniziando la stagione più importante, quella della conferma, e abbiamo perso tre giocatori determinanti, Mac Allister, Colwill e Caicedo. Ho detto ai miei che i grandi club comprano chi vogliono, ma non ci possono comprare l’anima. Quella non è in vendita. Il mio Brighton è la squadra che meno mi assomiglia calcisticamente ma più mi assomiglia come anima. Devo migliorare tanto nell’inglese. Al momento, le cose forti le dico in italiano. Più che capire quello che dico, voglio mi che guardino negli occhi. Devo trasferirgli il sangue, non le parole. La pressione del risultato non la sento. Mai sentita. L’unica pressione è quella che mi metto addosso da solo. Di migliorare il gioco, l’identità della squadra. Una cosa è certa: se la squadra non gioca bene, io non dirò mai che ho dei giocatori di merda Dirò che ho sbagliato io a non dargli la tranquillità giusta, quel dettaglio in più che li avrebbe aiutati a giocare meglio insieme».
Guardiola, il Milan, Zvonimir Boban
«Mi danno orgoglio: io sono consapevole di quello che so fare. Posso sembrare uno molto pieno di sé, ma sono onesto e so che non sono arrivato fin qui per caso o per fortuna. So bene che quello fatto fino a ieri oggi non conta più niente. La mia fortuna è di essere cresciuto nel grande Milan dei campioni, nell’era di Capello. Il più magnetico? Boban su tutti. Aveva una simpatia per me. Mi chiamava “talento”. Calciatore e uomo di una personalità illimitata. Anche dopo che ha smesso di giocare. Nessuno come lui, nemmeno in quel Milan. Una lotta tra giganti, se pensi ai nomi. Ma Boban aveva in più quello stile, quella schiettezza… Guardiola è stato straordinario con me. Quando sono arrivato in Inghilterra mi ha telefonato: “Se hai bisogno di qualsiasi cosa non esitare a chiamarmi”. Un grandissimo gesto. All’arrivo qui ero uno zero. Ora siamo amici».
L’esperienza allo Shakhtar
«L’esperienza più formativa della mia vita. Una squadra fortissima, quella che più si adattava alla mia idea di calcio. Dissi ai calciatori che in due, tre anni li avrei portati in semifinale di Champions. La cosa più brutta da accettare non fu la guerra. Quella era nell’aria. Fu tremendo prendere atto che la tua squadra, da un giorno all’altro, non c’era più. Cancellata. Sparita. Mi hanno aiutato i valori di papà Alfredo e mamma Alviana. Ho sentito la responsabilità verso i ragazzi. “Non vi abbandono, resto con voi fino alla fine”, gli dissi. Mentre in tanti, compreso il club, dicevano che la guerra non c’era, che era solo un gioco muscolare tra le due parti. Io la paura non l’ho mai sentita. L’unica paura era l’eventualità di doverci muovere verso il confine, restare bloccati, senza benzina, al freddo, senza mangiare. E poi, gli spari, le voci sui paracadutisti russi che si calavano nel centro della città per colpire Zelensky e potevano entrare anche nell’albergo in cui ci tenevano chiusi».
Roberto De Zerbi contro la massima “il calcio è semplice”
«Non condivido. Non può essere una cosa semplice quando si affrontano 22 uomini, con tutte le variabili del caso. Soprattutto, non penso che solo chi vince possa parlare. Credo che il risultato sia l’ultima cosa… Se perdo mi girano i co*****i, ma il risultato non giustifica tutto. Ho dato la mia vita per il calcio, se mi fermassi solo al risultato, a un rigore dentro o fuori. mi sentirei una merda. Io voglio vincere con il mio stile. Lo stile è quello che sei in quello che fai».
Roberto De Zerbi su ex calciatori, talenti inesplosi e scontri
«Con il 95 per cento ci vogliamo bene. Lego molto con i più sensibili. Berardi, Antonio Vacca, Iannello. E Boateng. Il calciatore più sensibile che ho mai avuto. Una battaglia persa? Schiappacasse. L’ho avuto al Sassuolo. Potenziale incredibile, sensibilità unica. Alle spalle, un’infanzia difficile. Quando ho saputo che è stato arrestato per possesso di un’arma e di stupefacenti, mi sono chiesto se avrei potuto fare di più per aiutarlo. Con chi mi sono scontrato? Con quasi tutti. Molto forte lo scontro con Cosmi, salvo poi ritrovare un buon rapporto quando non è stato più mio tecnico. Pasquale Marino uno dei pochi che ha saputo prendermi. Stimo quelli come lui, come Mazzone e Ranieri. Uomini veri e leali. Talento che mi è piaciuto veder crescere? Locatelli. Me lo porterei ovunque. Così, Berardi: è come un bambino quando gioca a calcio. Vuole divertirsi. Bravissimo ragazzo, introverso come pochi».
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