MARINO BARTOLETTI A RADIO ROSSONERA – “Lo sport è qualcosa che per me è ancora imprescindibile e che continua a massaggiarmi il cuore”. Parole e musica (è proprio il caso di dirlo vista la sua grande competenza in materia) di Marino Bartoletti: giornalista ma anche conduttore e autore televisivo; “etichette” che però non illustrano in toto il ritratto di un personaggio dai contorni eclettici. Il giornalismo (anche ai tempi dei social), la musica e lo sport le tematiche principali che abbiamo avuto il piacere di affrontare in sua compagnia – telefonica ovviamente di questi tempi – tra ricordi del passato e sguardi rivolti a ciò che potrebbe essere. Qui di seguito l’intervista completa:
C’è stato un momento, o un episodio, particolare del passato che le ha fatto capire di voler fare il giornalista?
“Ogni tanto anch’io mi sono posto questa domanda. Credo di aver realizzato quel pensiero durante le Olimpiadi di Roma che vidi in televisione da bambino quando avevo 11 anni. Quello fu il primo grande evento trasmesso con tanto impegno e dispendio di energie da parte della Rai. Guardando quelle Olimpiadi provai emozioni straordinarie perché vidi tante vittorie azzurre come ad esempio quella di Berruti nell’atletica, di Benvenuti nel pugilato, quelle del ciclismo su strada e su pista… Alla fine provai talmente tante emozioni e tanto orgoglio che probabilmente mi venne la voglia di trasmettere quelle stesse emozioni raccontando lo sport e in piccola parte credo di esserci riuscito“.
Quali sono stati i suoi modelli di riferimento nell’esercitare questa professione?
“Quando ero adolescente, scoprì il Guerin Sportivo e mi innamorai professionalmente di Gianni Brera che ne era il direttore. Mai avrei pensato a quel tempo che avrei lavorato al suo fianco per anni e nemmeno che sarei diventato suo successore nella direzione del Guerin Sportivo. Poi ce ne sono tanti altri, nello sport e non, Sergio Zavoli ad esempio con il suo “Processo alla tappa” e con le grandissime lezioni di giornalismo che ci ha dato“.
Nel corso della sua carriera lei ha seguito diversi sport, oltre al calcio qual è quello che l’ha appassionata maggiormente?
“Il primo sport al quale mi sono appassionato è il ciclismo che ancora adesso (oltre ad esserne un modestissimo praticante) mi dà emozioni che forse altri sport non mi danno. Durante le Olimpiadi scopri delle emozioni insospettabili: molto recentemente ho parlato con Juri Chechi e ricordo le emozioni e la commozione che provai nel vederlo vincere l’oro nelle Olimpiadi di Atlanta nel 1996. Cito dunque la ginnastica ma anche la scherma regala sempre fortissime emozioni concentrate in pochissimi minuti, il basket, i motori che ho seguito per anni. Ogni sport, anche il più insospettabile può nascondere quelle che io definisco come pepite di commozione. Lo sport è qualcosa che per me è ancora imprescindibile e che continua a massaggiarmi il cuore“.
C’è una squadra (un club italiano o estero oppure una Nazionale) della quale si è “innamorato” calcisticamente seguendone le imprese?
“La Nazionale azzurra del Mondiale del 1982. Certo, siamo stati campioni del Mondo anche nel 2006 ma quello del 1982 è stato il mio vero Mondiale sotto diversi punti di vista: coinvolgimento personale ed emotivo; amicizie; storie personali; l’Italia che a parte gli Europei del ’68 non vinceva nulla da prima della guerra; il mio momento anagrafico e di crescita personale; i grandi uomini con cui ho avuto a che fare come ad esempio Bearzot, Scirea, Zoff, Paolo Rossi, Conti e molti altri. Fare una classifica è difficile ma sarebbe ancor più difficile non mettere al primo posto quella squadra e quella vicenda umana e professionale“.
Una sorta di “Primo Amore” dunque….
“Se ci siamo innamorati dello sport è perché qualcuno da piccoli ci ha presi per mano e portati magari a vedere una partita in uno stadio, non importa quanto grande o importante. Io sono nato in provincia in una piccola città e ricordo che quando mio padre mi portava a vedere il Forlì mi sembrava di andare al Maracanà e guardare la più grande squadra del mondo anche se non era così. A proposito, ho un ricordo nitidissimo della mia prima partita allo stadio: avevo 5 anni e mio padre a un certo punto mi disse: “Lo vedi quello con il numero 4, si chiama Sandro Ciotti”. Questo per dire che la vita presenta certe sliding doors che neanche il più fantasioso degli sceneggiatori saprebbe ideare“.
Dalla carta stampata, alla televisione passando anche per la Radio. C’è uno di questi mezzi di comunicazione con il quale ha preferito esprimersi per arrivare alla gente? Ad oggi quale dei tre reputa il più efficace?
“Se si fa radio o televisione grosso modo è anche perché si sa scrivere. Raramente ho visto grandi giornalisti televisivi essere poi in grado replicare quella grandezza sulla carta stampata, il percorso inverso è molto più facile. Senza prima aver fatto quello che ho fatto a livello di impegno, scrittura, ricerca e studi non avrei potuto fare la televisione. La televisione a volte ti porta anche un po’ fuori strada perché pensi che tutto sia concentrato in quelle cose che dici e forse perdi un po’ la gioia di scrivere. Gioia che invece ho ritrovato in rete su Facebook e sono molto contento di aver in qualche modo potuto chiudere il cerchio“.
Parlando di televisione. Lei è tra gli ideatori della storica trasmissione Rai “Quelli che il calcio…”, può raccontarci com’è nata l’idea di quel programma?
“Un’idea nata perché c’era un bambino che non aveva ancora i baffi, cioè io (sorride, ndr), che la radio la guardava non la ascoltava. Una volta diventato adulto, dunque dopo aver acquisito i baffi (sorride nuovamente, ndr), ho sempre avuto in mente di poter fare una trasmissione televisiva che potesse portare le emozioni della radio e che dunque potesse in qualche modo “tradurre” a livello televisivo quello che per la radio era “Tutto il calcio minuto per minuto”. Ricordo che portai il progetto all’allora direttore di Rai 3 Angelo Guglielmi, forse l’unico al tempo che capì questa mia follia. Scegliemmo Fabio Fazio come frontman e credo che effettivamente sia nata una trasmissione che nel suo piccolo ha fatto la storia nel raccontare lo sport e il calcio in particolare, forse facendolo più bello di quanto non lo sia in realtà“.
Negli ultimi tempi l’informazione viaggia molto tramite i social network. Che consiglio si sentirebbe di dare alla nuova generazione di giornalisti che, per forza di cose, si trova ad usarli giornalmente?
“Il consiglio è quello di studiare e documentarsi, non si deve scrivere per istinto o per impulso: bisogna che l’opinione non possa confondersi con la competenza. Per scrivere qualcosa, per darla in pasto a tante persone, ci vuole un background culturale che però non tutti hanno la pazienza di consolidare nel tempo“.
Lei è anche un riconosciuto esperto di musica. Da dove nasce questa sua passione e quanto è stato difficile, se lo è stato, dedicarsi parallelamente a questo altro meraviglioso mondo?
“Difficile non lo è stato perché la musica è una delle mie più autentiche passioni. Io della musica mi sono innamorato appena nato: mio padre suonava, avevo dei parenti musicisti e sono nato in un momento storico in cui la musica in Italia si stava espandendo per dare un linguaggio comune agli italiani. Quando è nato Sanremo c’era ancora un repertorio antico in quello che gli italiani cantavano. Negli anni seguenti, anche grazie al Festival e con la diffusione dei dischi, la musica si è affermata e io mi sono appassionato sempre più anche ascoltando i dischi di mio fratello e coltivando questa mia passione. D’altronde un adolescente degli anni ’60 non poteva certamente essere insensibile a tutto quello che il mondo stava offrendo: penso ai Beatles e a tanti cantautori italiani. Anche attraverso “Quelli che il calcio” ho avuto la possibilità di invitare i miei mostri sacri degli anni ’60 avendo così la gioia di averli vicino a me. Questa passione man mano è diventata nota e anche un lavoro. Musica e sport sono due ambiti paralleli che possono tranquillamente convivere”.
Cosa rappresenta Sanremo per lei? Qual è la sua canzone del Festival?
“Sanremo è un grande evento sociale ancor prima che artistico. Uno specchio di questo paese con tutti i suoi pregi e difetti. Il Festival lo seguo sempre con grande affetto e mi dispiace per chi si mostra prevenuto, salvo poi che quelle stesse persone che dicono di non vederlo poi sono in grado di dire tutto quello che è successo. L’ho sempre detto e lo ribadisco, la mia canzone del Festival è “Io che non vivo senza te” di Pino Donaggio del 1965: mi è sempre piaciuta. Inoltre, questa è stata l’unica canzone di Sanremo che Elvis Presley ha inserito nel proprio repertorio. Elvis nel suo repertorio inserì 3 canzoni italiane: Torna a Surriento, ‘O sole mio e, per l’appunto, io che non vivo senza te“.
Insieme a Lucio Mazzi ha scritto “Almanacco del Festival di Sanremo”. Che libro è, quali contenuti si possono trovare?
“Credo sia l’almanacco più completo che sia stato scritto perché c’è anche tutta una parte statistica molto curata che deriva dalla mia formazione sportiva. Non esiste un almanacco Panini del Festival di Sanremo, è stato fatto un almanacco ma è fermo a 15 anni fa e andava in qualche modo aggiornato. In questo almanacco c’è di tutto: dal racconto dei personaggi e delle singole edizioni all’elenco completo delle 2035 canzoni che sono state presentate. Inoltre, sono presenti anche dei miei ricordi personali legati alla tante edizioni che ho seguito. Un almanacco che io stesso avrei sempre voluto consultare e che ogni tanto infatti rileggo con grande piacere”.
A proposito di Sport e Musica. Scelga un evento sportivo che le è rimasto nel cuore e la colonna sonora che vorrebbe sentire in sottofondo mentre lo ricorda…
“Non è facile fare una selezione del genere perché grazie allo sport ho vissuto momenti di emozione e commozione straordinari. Penso ad esempio a Italia-Brasile 3-2 del 1982 con la tripletta di Paolo Rossi. Poi però mi rendo conto forse che le emozioni più forti le ho vissute durante le Olimpiadi. Come accennavo prima, quella notte di Atlanta in cui Juri Chechi vinse la medaglia d’oro agli anelli fu bella e importante; allora ero direttore di Rai Sport e la vissi in maniera molto particolare mescolando le mie passioni personali ai miei doveri professionali. Una prova di soli 2 minuti ma di un’intensità talmente forte che mi è difficile dimenticarla. Chechi avrebbe sicuramente vinto anche le Olimpiadi precedenti del 1992 ma un infortunio al tallone d’achille gliele precluse; quell’oro vinto con 4 anni di ritardo fu un emozione molto forte: una rivincita eroica! Se dovessi abbinare una canzone a quell’evento sportivo direi Starman di David Bowie: Juri Chechi come un angelo che volava in quella specie di cielo in quel palazzetto. Ricordo ancora le parole del telecronista Andrea Fusco che per 6 volte disse “Vola, vola, vola, vola, vola, vola Juri Chechi” a quel punto era chiaro che avrebbe vinto la medaglia d’oro. Questo anche per sottolineare quanto le imprese sportive non siano disgiunte da chi le ha raccontate; penso ad esempio a Galeazzi con i fratelli Abbagnale, a Martellini o Civoli con l’Italia campione del mondo, a De Zan…”.
Quanto secondo lei i gusti musicali di un comune fruitore possono essere influenzati dalla case discografiche? Sono le case discografiche a proporre una sorta di “nuovo mercato” della musica oppure il principale potere decisionale risiede sempre nell’ascoltatore?
“Le case discografiche fanno il loro mestiere ma per quanto mi riguarda, con tutto il rispetto ovviamente, visti anche i tantissimi canali alternativi che adesso tutti hanno a disposizione, la fruizione è tutt’altra cosa rispetto a quelle che possono essere le proposte. Certo, le case discografiche hanno anche investito su cantanti che altrimenti forse non avremmo mai conosciuto“.
Chiudiamo con una domanda sull’attualità. Sono state fatte tante ipotesi sulla ripresa dei campionati nazionali e delle coppe europee. Tra tutte le proposte che ha sentito (le final four, i playoff,…), qualcuna la convince?
“Questo discorso è complicato considerati i “quando” e i “se” si potrà tornare a giocare. Ci sono dei giorni in cui sono più ottimista e altri in cui lo sono meno. Chiaro che dispiacerebbe moltissimo vedere quella casella vuota perché è accaduto soltanto in tempi di guerra. Io spero che i tempi consentano qualcosa che possa quantomeno assomigliare a una conclusione della stagione sul campo. So che parlare di Playoff significa urtare delle sensibilità perché le regole non vanno cambiate in corsa; credo però che le 12 giornate che restano alla conclusione della Serie A possano essere disputate: penso al campionato del 1946 che terminò il 28 luglio senza compromettere la stagione successiva. Vero è però che il vuoto di quella casella nell’albo d’oro potrebbe starci per far ricordare a tutti in futuro cos’è avvenuto in questo anno così tragico. La mia speranza comunque è che questo vuoto non ci sia e non mi indignerei se lo Scudetto fosse assegnato anche attraverso i Playoff che sono comunque una formula riconosciuta in altri sport e nel calcio stesso per altri campionati. I Playoff un po’ come i calci di rigore utilizzati al posto di una monetina. Piuttosto che non assegnare il titolo, spero si possa trovare una maniera per poterlo assegnare sul campo”.
Si ringrazia Marino Bartoletti per la cortesia e la disponibilità
Donato Boccadifuoco
