MANCHESTER UTD MILAN
Quando siete felici, fateci caso è il titolo di una raccolta di discorsi universitari tenuti dallo scrittore americano Kurt Vonnegut tra il 1978 e il 2004; il libro è stato pubblicato nel 2013, che poi è l’ultimo anno in cui il Milan si è qualificato alla Champions League.
È una frase che è diventata famosa, talmente famosa da degradare nella banalità, ripetuta a pappagallo senza più concentrarsi sul senso delle parole. Quando siete felici, fateci caso è una frase che dovrebbe tornare in mente ai tanti tifosi del Milan impegnati in questi mesi nella faticosa ricerca della felicità – che poi, in questi anni di vacche magre, si traduce semplicemente nel raggiungere l’obiettivo prefissato a inizio stagione, la partecipazione alla prossima Champions, una cosa che non è mai riuscita nelle ultime sette stagioni.
In questa lunga corsa a tappe che proprio domenica scorsa ha superato i due terzi di percorso, arriva di colpo questo viaggio a Manchester, che dopo la bella vittoria di Verona assume le sembianze della gita-premio.
Sono ore in cui evocheremo i tantissimi bei ricordi legati al Teatro dei Sogni, lo 0-1 del 2005 con un Milan che teneva in campo contemporaneamente Pirlo, Seedorf, Kakà, Rui Costa e Crespo, e nessuno che si chiedesse “ma non saremo troppo offensivi?”.
Ovviamente i rigori di Serginho, Nesta e Shevchenko della finale 2003, fino all’one-man-show di Kakà che, nella tradizione popolare, tenne in piedi quasi da solo il Milan all’andata della semifinale 2007, contro uno United fortissimo che meno di un mese prima aveva battuto 7-1 la Roma, incoraggiando i primi meme a sfondo calcistico della storia di Internet: l’allenatore giallorosso Spalletti che sul volo di ritorno aveva fatto vedere Seven a tutta la squadra.
Quando siete felici, fateci caso casca a fagiolo proprio a proposito di quella partita che mi è capitato di rivedere qualche ora fa.
Il 24 aprile 2007 tutti noi davamo per scontata la circostanza di essere lì, in quel luogo, in quel momento, a giocarci alla pari una semifinale di Champions League contro la squadra più forte del mondo, che stava allevando uno dei due dominatori del calcio mondiale dei 15 anni successivi e che proprio con un gol di Cristiano Ronaldo avrebbe vinto la coppa successiva, a Mosca nel 2008.
Gli occhi di quel Manchester United erano all’altezza dei nostri: una cosa che davamo per ovvia, “loro hanno Giggs ma noi abbiamo Maldini”, una fiducia e una sicurezza che trascendevano nell’arroganza – e il confronto con i tempi di oggi in cui la maggior parte dei tifosi era certa della disfatta in casa del Verona di Barak e Zaccagni è così stridente e doloroso che non lo farò.
Rivedendo oggi a mente fredda, quasi 15 anni dopo, quel primo tempo, oltre ovviamente alla prova marziana di un Kakà talmente in fiducia da provare il tiro in porta anche da 40 metri, si notano almeno altre due cose.
La prima è la reazione di gelida eleganza con cui il Milan – tutto il Milan – reagisce al prevedibile inizio impetuoso dello United, passato in vantaggio dopo cinque minuti a causa di uno svarione di Dida e subito dopo vicino al raddoppio con Carrick.
Con il silenzio e la perizia di un killer professionista in guanti bianchi, senza inutili spargimenti di sangue, Pirlo, Gattuso e Seedorf si impadroniscono del centrocampo e ripuliscono la scena del crimine di ogni traccia avversaria, smorzando il volume di Old Trafford come avevano fatto i loro antenati Donadoni, Rijkaard e Ancelotti nell’aprile 1989 al Bernabeu, in un’altra mitologica semifinale d’andata di Coppa Campioni.
La doppietta di Kakà fu solo una conseguenza di questo dominio psicologico in uno stadio da 75 mila spettatori che oggi risulta semplicemente impensabile anche in uno stadio vuoto, dacché conosciamo bene i dati stagionali: quando va in vantaggio il Milan vince quasi sempre, ma quando va sotto di un gol non rimonta mai.
La seconda cosa che si nota non è qualcosa di materiale e tangibile, ma uno sguardo, un’attitudine, un’attività e reattività cerebrale ancora prima che fisica che solo quest’anno siamo tornati ad avere dopo tanto tempo, per esempio nel derby d’andata, a Napoli, a Roma o anche a Verona.
Solo che a Manchester nel 2007 quell’intensità era moltiplicata per cento, e non è soltanto splendore atletico – per esempio il recupero in scivolata con cui Nesta devia in angolo un tiro a botta sicura di Rooney in apertura – ma anche lucidità mentale, come Keanu Reeves che vede le pallottole arrivare al rallentatore e ha molto più tempo per studiare il da farsi rispetto a un comune mortale.
Guardate i primi 45 minuti di Gattuso, passato ingiustamente alla storia solo per la foga e la generosità, ma dotato in realtà di un senso tattico che manca totalmente a tutti i cosiddetti mediani in circolazione oggi. Guardate come prende i falli, guadagna le rimesse laterali, guardate come fa muovere il Milan – un Milan che viaggiava almeno al doppio della cilindrata di quello attuale – al ritmo del suo respiro. Cose che non finiscono nelle clip e negli highlights, ma dipingono gli affreschi delle grandi squadre.
Quella semifinale d’andata ebbe un secondo tempo quasi trascurabile, soprattutto alla luce della gara di ritorno: il Manchester United riuscì a vincerla grazie a una doppietta di Rooney, ma lo sapevano bene anche loro che il discorso era girato solamente grazie agli infortuni di Maldini e Gattuso, perdita insostituibile (soprattutto insostituibile con Brocchi, che ebbe sulla coscienza il 3-2 finale).
Ricorderete anche lo stato d’animo che avevate al fischio finale, una rabbia lucida e consapevole di aver giocato alla pari a casa dei Diavoli: ma sì, vedrai che tanto a San Siro rimontiamo. Un ottimismo incosciente, oggi che ci preoccupiamo di Kevin Lasagna. Un ottimismo perfettamente giustificato dai fatti.
Quando siete felici, fateci caso.
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