Intervistato dal mensile del Corriere della Sera Login, dedicato a innovazione, scienza e nuove tecnologie, Rafael Leao racconta la sua vita tra social, famiglia e, ovviamente, Milan.

Le relazioni sono sempre autentiche anche se mediate da uno schermo?
«Non siamo noi a sentire questa differenza, la mia vita quotidiana è un mix naturale tra reale e digitale, siete voi non nativi digitali che vi ponete sempre il problema. Mia mamma mi videochiama tutti i giorni, per esempio. Anche se spesso vuole solo sapere se ho mangiato bene».
Sul suo valore di mercato
«Per carità, quella è una cosa a cui non penso. Il mio valore reale è un’altra cosa. Dio mi ha regalato il talento e io devo esserne grato e continuare a lavorare duro per non sprecarlo».
Leao ha un approccio incisivo sulle cose, ma con un giusto distacco: anche un milione di follower su Instagram non sono un vanto.
«Ammetto che fa piacere. È anzi un onore essere un esempio peri più giovani che magari mi seguono per il mio modo di essere o perché gli piacciono i contenuti che posto. Ma sono un calciatore, un attaccante e quindi i numeri che mi fanno più felice sono quelli del campo».
Serve una strategia sul digitale per arrivare ai nuovi tifosi. Cosa ne pensi del lavoro che state facendo sulle diverse piattaforme?
«Il Milan è un grandissimo club con oltre 500 milioni di tifosi, il vero elemento fondamentale del calcio. Trovo giusto cercare di coinvolgere ed emozionare ciascuno di loro, sono felice di questo lavoro di contatto, e della crescita che stiamo facendo in questo senso. I canali digitali permettono ai nostri fan di sentirsi vicini alla squadra e ai propri calciatori preferiti, in ogni momento».
«Mai dimenticare le tue origini» è il claim di Son Is Son, il tuo marchio di abbigliamento. Perché la scelta di questo nome?
«Per me la famiglia è la cosa più importante. Quello che faccio in campo voglio trasmetterlo a loro, voglio fare bene per loro. Il rapporto con mia mamma è speciale, ve l’ho già detto: chiama tutti i giorni per sapere come sto. Mio papà è una persona diversa, vuole che faccia le cose giuste. Sono molto legato, e con il primo stipendio ho comprato subito la casa per loro».
Con Cabral, tuo amico e calciatore della Lazio, leggo che condividi la passione per la trap. E anche qui non ti sei limitato ad ascoltare: hai fatto un tuo disco, «Beginning», in cui racconti appunto le tue origini.
«Mi piace molto rappare e penso che quando finirò la mia carriera di calciatore potrei fare quello, nella vita. Per ora è un passatempo e basta: faccio trap, ma parlo soprattutto della mia vita, dei sacrifici per arrivare fin qui. Pensieri che condivido anche con Cabral, una presenza fissa nella mia vita. Ecco, l’amicizia è un altro valore importantissimo, anche in quello che fai: nel calcio ho molti amici, nel Milan e anche in altre squadre. Questo crea gruppo, unità di intenti e anche di valori. E sono orgoglioso di essere in un club molto attento a temi di responsabilità sociale, che ha fatto tanto per promuovere l’equità, l’uguaglianza e l’inclusività attraverso gli esempi positivi dello sport».
Perché in arte sei Way 45, cosa significa?
«Tante persone me lo chiedono: 45 è il codice postale della mia regione in Portogallo, mentre Way è il cammino, quindi è un po’una connessione tra le mie origini e la strada che sto percorrendo. Il Barrio de Jamaica, dove sono nato, è tutto per me: è lì che ho cominciato a giocare, che ho la mia famiglia, i miei amici, le persone più importanti. È il mio cuore».
Leggo che ti piacciono i videogiochi: volevo chiederti un’opinione sugli eSports, da atleta di sport tradizionale e da appassionato.
«La PlayStation è sicuramente tra i miei hobby e durante il lockdown ho anche giocato un derby digitale contro un calciatore dell’Inter, un modo per stare vicini ai tifosi in un momento difficile della vita di tutti. E sicuramente gli eSports sono un trend in grande sviluppo e un mercato che può crescere ancora molto nei prossimi anni. Credo però che le emozioni che regala un evento come una partita di calcio reale, dal vivo, siano imparagonabili».
Credi che i social network siano di aiuto per la tua generazione a socializzare oppure rischiano di distrarre?
«Forse la differenza la vede più chi non è nativo digitale, per noi è normale mantenere rapporti reali e virtuali. L’utilizzo dei social network è anche di grande utilità, mi permettono di rimanere in contatto con la mia famiglia e i miei amici e vedere, anche se attraverso uno schermo, le persone a cui voglio bene».
Ok, digitale è reale. Ma prova a spiegarci qual è la differenza tra giocare in uno stadio pieno come col Sassuolo, all’ultima di campionato, e invece vuoto o a metà come durante la pandemia.
«Il calcio senza tifosi è un’altra cosa, non c’è altro da aggiungere. Quest’anno a San Siro è venuto a sostenerci oltre un milione di persone totali, senza considerare quante volte in trasferta era come giocare in casa: a Reggio Emilia, nella gara decisiva, sembrava di essere a Milano. E poi la marea di gente che ci ha accolti al nostro ritorno in città e il giorno dopo nella parata col pullman scoperto. No, le sensazioni che si provano nella vita reale sono un’altra cosa!».
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photocredits: acmilan.com