Centodiciannove minuti di niente, un romanzo
Lo so. Ne ho già parlato delineando, in maniera peraltro inadeguata, il ritratto di Chicco Evani ma è necessario, nel giorno del trentunesimo anniversario, approfondire la questione. Centodiciannove minuti di niente e trombette. Non è un’esagerazione, un’iperbole o una licenza giornalistica della quale non saremmo nemmeno capaci. Due tempi regolamentari e due supplementari che possono essere condensati, scrivendo largo come si faceva nei temi al liceo quando eri a corto di argomenti, in cinque minuti funestati dalle ormai “mitologiche” trombette che escono dagli altoparlanti dello stadio. Minuti nei quali non succede niente a parte un pallonetto divino del divino Marco Van Basten finito fuori di poco. Loro è come se non ci fossero, a parte il fatto che ci fanno diventare matti.

Perché una simile partita entra nell’immaginario collettivo rossonero? Perché una partita del genere è un romanzo a sé stante?
Alla prima domanda si risponde facilmente: perché è la seconda Coppa Intercontinentale del Milan e segna il passaggio del Diavolo (occhio al luogo comune perché quando ci vuole, ci vuole) dall’inferno della Serie B alla cima del mondo. La seconda domanda ha una risposta complessa e piena di risvolti tecnici, sociali e politici. Se vi va di fare un giro nella storia del calcio finite di leggere l’articolo; in caso contrario andate sul noto sito di raccolta di video, godetevi il graffio in stile De Chirico che Chicco San fa sulla tela monotona della partita ed esultate come trentuno anni fa…
Dal Milan… al Milan
Diciassette dicembre 1989. Molti di coloro che sono svegli nella notte italiana aspettano il Milan spettacolare che ha dominato la Coppa dei Campioni precedente tritando tutti gli avversari fatta eccezione per la Stella Rossa di Belgrado che ci regala una partita leggendaria. Cinque gol al Real Madrid, quattro alla Steaua Bucarest annichilita nella finale di Barcellona. Tutti si aspettano che a Tokio si possa assistere ad un’altra esibizione dei ragazzi di Arrigo Sacchi intenti a seppellire di gol i malcapitati colombiani. E invece…
Molti di quelli che sono svegli nella notte italiana sono abbastanza anziani da ricordare che sono passati venti anni e pochi giorni dall’ultima partita in Coppa Intercontinentale del Milan. Il parallelo tra le due squadre ci sta, eccome. Benché sia stato spesso tacciato di difensivismo Nereo Rocco ha messo in piedi una squadra che è piuttosto “glam”; ok, ci sono quattro difensori piuttosto duri e due grandi polmoni a sacrificarsi in mezzo al campo ma davanti ci sono tre punte e il divino Gianni Rivera. Ok, Malatrasi e Anquilletti saranno anche proletariato calcistico però ci sono pure Rosato e Schnellinger che, se c’è da dargli al pallone, ci danno ma è tutta gente che sa giocare a calcio. Poi quelli davanti sono Combin, Prati, Sormani e il “Golden Boy”: uno spettacolo. Anche quel Milan domina la Coppa dei Campioni faticando solo con i campioni in carica del Manchester United che ci regalano un’altra partita che va dritta nella nostra leggenda. In finale, a Madrid, rifiliamo quattro gol (toh!) ai lanceri di Amsterdam futuri dominatori d’Europa. E invece…
La mattanza
Invece, dobbiamo fare un altro passettino indietro. Piccolo ma fondamentale. 25 settembre 1968, finale di Coppa Intercontinentale. Lo stadio è “La Bombonera” di Buenos Aires, il pubblico è il classico pubblico argentino e le squadre sono il Manchester United di Sir Matt Busby e, ma guarda un po’, l’Estudiantes di La Plata cittadina ad un tiro di schioppo da Buenos Aires. Uno a zero per gli argentini che fanno agli inglesi, con un anno di anticipo, quello che faranno ai rossoneri trecentosessantacinque giorni dopo circa. Porteranno a casa la coppa difendendo un 1 a 1 nel ritorno a Manchester perché, nonostante tutto, sono anche una buona squadra.
Tra i rossoneri nessuno alza il telefono per chiedere agli inglesi cosa sia successo in quella doppia partita, per chiedere se, per esempio, i punti di sutura rimediati da Bobby Charlton fossero verità o leggenda. Nella partita di andata a Milano i ragazzi di Rocco regalano spettacolo e mettono in piedi un 3-0 con sapore di trofeo finale che però, curiosamente, non passa alla storia come la sconfitta del ritorno, una partita così leggendaria da scriverci sopra diversi libri. Nasi e zigomi rotti: 1 (Nestor Combin). Notti di carcere: 1 (Nestor Combin). Radiazioni: 1 (Poletti, Estudiantes). Squalifiche: 2 (Aguirre Suarez, Estudiantes 30 partite e cinque anni di attività internazionale, Manera, Estudiantes: 20 partite e tre anni di attività internazionale). Arresti: 3 (Poletti, Aguirre Suarez, Manera: 30 giorni a testa). All’arresto di Combin per diserzione la squadra si rifiuta di tornare in Italia e il ragazzo viene liberato solo grazie all’intervento del nostro ambasciatore a Buenos Aires che fa, garbatamente ma decisamente, notare che la situazione è scappata di mano. Nestor sale sull’aereo e il Milan torna in Italia a festeggiare il titolo ma orai la storia è stata scritta.
Signore e signori, la Toyota Cup
L’anno successivo stessa solfa con Il Feyenoord che porta a casa la coppa ma il grande Ernst Happel, allenatore degli olandesi, definisce i giocatori dell’Estudiantes dei “gangster”. Vi risparmiamo tutto il dibattito, ancora vitale in Argentina, tra menottismo e bilardismo (termine analogo a resultadismo) che deriva dal nome di Carlos Bilardo allenatore della nazionale argentina del mondiale ’96 nonché centrocampista e anima di quell’Estudiantes; sarebbe un tema interessante da sviluppare ma tocca stare ai dati essenziali. Nell’edizione 1971 l’Ajax declina l’invito e da lì in avanti la coppa perde il suo prestigio tra rinunce, partecipazioni delle seconde ed edizioni non disputate. Non si può andare a giocare a calcio a quelle regole e deve intervenire una grande corporation, la Toyota, a salvare lo spettacolo. Con notevole fiuto per gli affari la multinazionale nipponica inizia ad ospitare la competizione in partita unica in quel di Tokio avendo compreso che, pur non essendo il calcio sport caro ai giapponesi, il pallone è una lingua universale parlata in ogni angolo del pianeta. Cioè esattamente dove la Toyota voleva arrivare a vendere le proprie auto. Nell’iconografia dei milanisti a fine partita Baresi solleva la Coppa Intercontinentale e Mauro Tassotti solleva la Toyota Cup.
Tokio, abbiamo un problema. Risolto…
Già perché sarà anche una clamorosa trovata pubblicitaria ma i giapponesi sono pur sempre giapponesi, i tedeschi d’Asia. Gli dicono di andare allo stadio e loro, disciplinatamente, lo riempiono anche, ma non hanno idea di cosa stiano andando a vedere e quindi sono belli seduti in silenzio. Se metti dei cartonati ottieni lo stesso effetto. Intervengono i geni del marketing e dagli altoparlanti dello stadio fanno uscire il suono, recuperato chissà dove, di trombette. È un lungo suono continuo che passa attraverso i microfoni dei cronisti e arriva fino alle case degli italiani. Ricordate i cinque minuti di highlights di cui al primo capoverso? Guardateli e moltiplicate per ventiquattro (diconsi 24, in numeri); ancora oggi mi chiedo come io sia riuscito a seguire tutta la partita…
Per inciso, oggi il calcio giapponese è diverso. Dopo avere ospitato svariate finali di Intercontinentale, le squadre del Sol levante hanno iniziato ad assoldare giocatori europei e sudamericani i quali, pur a fine carriera, sono riusciti a dare prestigio e insegnamenti importanti al campionato nipponico: Lineker, Zico, Schillaci, i milanisti Daniele Massaro e Leonardo, Dunga e Bebeto. Campioni stranieri ma anche organizzazione, disciplina e la solita partecipazione delle onnipresenti grandi aziende giapponesi riescono a imporre il calcio giapponese all’attenzione del mondo sia nelle competizioni per nazionali (il 2011 è l’anno d’oro: l’ex milanista Alberto Zaccheroni vince la Coppa d’Asia con gli uomini e la nazionale femminile vince il campionato del mondo) che nel calcio europeo dove si affermano i calciatori giapponesi. Una lunga fila di ottimi giocatori che, partendo dai pionieri Miura e Nakata, passa per la generazione dei Nagatomo, dei Kagawa e del milanista Honda per arrivare fino al giovane Tomiyasu che nel mercato estivo 2020 è stato accostato ai rossoneri. Oggi, a trenta anni di distanza dalle trombette finte, hanno il pienone ad ogni partita e gli ultras in curva. Alla faccia…
I due Escobar; Pablo e Andres
Se la storia del Milan che arriva a Tokio è un poema epico che passa dalla notte della Bombonera e da un paio di retrocessioni in Serie B, quella del Nacional del Medellin è un romanzo giallo/thriller/psicologico/sociologico. Se il Milan è lo specchio del suo presidente (glamour se ce n’è stato uno nella nostra storia) e del periodo culturale dell’Italia di fine anni ’80, il Nacional de Medellin è, allo stesso modo, figlio del suo tempo e del contesto culturale.
Sono gli anni dell’epopea della cocaina e dello splendore dei cartelli della droga. Un vero e proprio fiume di denaro ricopre la Colombia e i signori della droga ne mettono una parte nel calcio di casa loro. Pablo Escobar è di Medellin e aiuta economicamente i “puros criollos” a diventare una delle squadre più forti del continente. I calciatori sono delle vere e proprie stelle ricoperte di denaro che spesso frequentano, come trofei da mostrare agli amici, gli stessi ambienti dei Narcos.
A volte capita che nel calcio soldi e risultati vadano di pari passo. Se puoi contare su una nidiata di talenti colombiani (“puros criollos” appunto) e il tuo allenatore è Francisco Maturana, una sorta di Arrigo Sacchi in salsa colombiana, il risultato, la Copa Libertadores, è assicurato. Giocando anche un gran bel calcio.
Il sacchismo allo specchio
Ed eccoli lì i due contendenti, i fiori all’occhiello di due continenti: i rossoneri di Arrigo Sacchi ed i verdi di Francisco Maturana. Sarà una bella serata di calcio spettacolare ma alla fine prevarrà la classe di Gullit su quella di Valderrama, Van Basten farà più gol di Trellez e Baresi riuscirà a fermare gli attaccanti meglio di Andrès Escobar. E invece…
E invece Maturana decide di giocarsela a specchio con il suo omologo europeo. Pressing asfissiante, spazi cortissimi con le squadre che giocano in una fetta di campo lunga al massimo trenta metri e per ogni mossa parte la contromossa. Ci sta, sapete chi è stato l’allenatore del Nacional nel periodo 1976/1982? Osvaldo Zubeldìa. Se il nome non vi dice nulla scorrete il tabellino di Milan Estudiantes del 1969 e lo trovate seduto sulla panchina degli argentini; ve lo avevamo detto che non era una partita ma una sorta di romanzo che culmina nei centodiciannove minuti di Tokio!
Il risultato di quelle scelte è la risposta alla domanda “cosa succederebbe se il Milan di Sacchi giocasse contro il Milan di Sacchi?”: una partita che fa la felicità degli appassionati di tattica ma manda in depressione i maghi dell’audience. A fine primo tempo i primi spettatori “neutrali” si arrendono, per i supplementari restano solo i milanisti. E le dannate trombette. Pane per i denti di chi sostiene che, alla fin fine, il calcio di Arrigo fosse solo un modo per difendersi: o hai tu il pallone e gli altri non ti possono fare gol oppure azzanni gli avversari per riprenderti il pallone che poi terrai tu per non fare segnare gli altri. Già Nils Liedholm, il primo zonista puro del calcio italiano, sosteneva che la partita perfetta finisce zero a zero.
Zero a zero
Ed è proprio lì che Maturana ci vuole portare, proprio dove ci aspetta Renè Higuita, El Loco. Amico dei Narcos e grande portiere, galeotto e pararigori, istrione e calciatore moderno che imposta le azioni come i suoi colleghi di trenta anni dopo. È il titolare di un primato difficilmente ripetibile: è l’unico (o almeno così si dice) ad avere fatto in partita ufficiale quello che viene chiamato “El escorpion”: arriva il tiro dell’avversario (generalmente centrale, facile e a mezza altezza), Renè si butta in avanti poggiando le mani a terra e allontana il tiro con un colpo di tacco doppio sopra l’altezza delle spalle. Nonostante quella testa e i guai infiniti che gli ha procurato (dalla cocaina alla galera alla mediazione in un sequestro di persona, potete scegliere) Maturana gli dà le chiavi della difesa, vuoi perché ha un passato da calciatore di movimento e imposta l’azione come fosse un centrocampista, vuoi perché ha una personalità incontenibile. Ed è evidente che i milanisti un po’ lo temano. Tutti tranne Chicco San che entra al posto di Fuser e, quando i difensori si piazzano in barriera, si accorge di uno dei tanti errori della carriera del Loco; Higuita mette troppa gente e non vede quello che accade alla sua destra perché si aspetta la conclusione di un destro. Chicco la taglia con il suo sinistro chirurgico, uno dei verdi la tocca e Renè la guarda entrare in porta. In un minuto il Nacional non la può recuperare e il Milan finisce sul tetto del mondo.
In memoria di Andrès
Pablo e Andrès a parte il cognome non hanno niente di simile. Pablo nasce da famiglia povera e fa tutta la gavetta criminale fino a diventare il gangster più ricco della storia (secondo Forbes) lasciando dietro di sé una scia di cocaina, soldi e morti difficili da contare. Andrès è figlio di un banchiere, viene educato in un collegio ed è baciato da un talento che lo porta ad essere un esponente di spicco della nazionale colombiana; sembra addirittura che a lui si siano interessati grandi club europei, Milan compreso. Pablo si fa beccare dalla polizia per una banale telefonata, Andrès segna una banale autorete che elimina i Cafeteros dal mondiale di USA ’94.
Pablo muore il 2 dicembre 1993, Andrès sette mesi dopo; entrambi personaggi che hanno diviso il loro paese, entrambi per colpa dei loro errori banali ed entrambi con dei proiettili in corpo. Chiudiamo, in maniera insolita, rendendo omaggio ad un interista: dopo quella vicenda triste e controversa nessuno ha più avuto il coraggio di indossare la maglia numero 2 di Andrès Escobar fino all’arrivo di Ivan Ramiro Cordoba, grande calciatore e grande uomo.
In memoria di Andrès, perché il calcio non sia mai più quella roba lì ma una punizione deviata dopo centodiciannove minuti in mezzo al suono delle maledette trombette giapponesi.