Intervistato dalla Gazzetta dello Sport, Gennaro Gattuso ha parlato del suo Valencia e delle differenze tra calcio italiano e spagnolo.

Sul possibile acquisto di Arthur dalla Juventus
«Arthur? Certo che mi piace, ma non ce lo possiamo permettere, e allora è inutile girarci attorno o fare promesse che non si possono mantenere. Bisogna lavorare, poi lavorare e poi continuare a lavorare per trovare la nostra identità».
Nel cammino che porta a Paterna, la “ciudad deportiva” del Valencia, prima si passa per lo scheletro decadente del Nou Mestalla, lo stadio nuovo mai finito, e poi ci si imbatte in un grande cartello contro il proprietario, Peter Lim. Segnali di disagio di un club che è stato enorme e che ora fatica.
«Se uno vuol comprare uno spazio pubblicitario e usarlo come crede può farlo, ma a me la cosa non interessa né mi riguarda. Quando ho deciso di venire qui l’ho fatto a ragion veduta. Sono stato a Singapore e Lim non mi ha ingannato, come può aver pensato qualcuno. Mi ha detto dei problemi economici in assoluta trasparenza. E dei problemi d’ambiente con stampa e tifosi».
E lei ha accettato lo stesso.
«Sì, perché volevo misurarmi con un calcio di altissimo livello che sento vicino al mio pensiero. Del resto la mia storia dice che se le cose non sono difficili non mi chiamano, e nemmeno mi piacciono. Questo è un grande club in difficoltà economica, una condizione comune a varie squadre. Poi sono un tipo curioso, che ha voglia di apprendere e di dare. Sono andato in Scozia da ragazzo e poi da tecnico in Svizzera, in Grecia, in Spagna: all’estero la mentalità si apre».
Gli spagnoli sono sorpresi dalla distanza tra Rino che ringhiava giocando e quello che allena con criteri di gioco ben precisi.
«Finalmente. Ci ho messo un po’ a far ricredere la gente, e sono contento del risultato. Io ho sempre cercato un calcio propositivo, e soprattutto di trasmettere qualcosa. Per questo lo scorso anno sono rimasto fermo: non avevo nulla da dare e quando è così parto sempre sotto 2-0. Non sentivo nulla. Venire qui, con tutte le difficoltà del caso, a confrontarsi con una Liga così competitiva ha riacceso il mio fuoco interiore».
Oggi parte la Liga.
«Campionato molto difficile con parametri tecnici elevati e tre club davanti a tutti: Real, Barcellona e Atletico. Dietro, tanti che hanno un denominatore comune: la cura della palla. Qui le priorità non vanno al fisico o ai chilometri percorsi, ma alla “pelota”. “El balon” è al centro del progetto, a tutti i livelli. I ragazzini crescono con un’identità precisa, pensando alla palla. Poi ogni allenatore sviluppa le sue idee ma pure chi gioca diretto, verticale, lo fa contando su una base tecnica di grandissimo livello. Esordiamo col Girona, neopromossa: bisogna fare grandissima attenzione».
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E in Italia?
«A livello giovanile a lungo sono stati privilegiati parametri diversi, legati al fisico. E poi ai nostri tempi si giocava per strada 10-12 ore al giorno. Oggi un ragazzo giovane non arriva a 7-8 ore settimanali di calcio, partita compresa. In parrocchia non si va più, in strada non si scende perché i genitori hanno paura della delinquenza. Tante società in Italia non hanno il campo e i ragazzi devono condividerlo. Bisogna pensare alle strutture, ad aumentare le ore di allenamento. Poi ci sono tanti stranieri, sono più bravi dei nostri? Da noi i 2002, 2003 faticano a trovare spazio. Bisognerebbe aprire una discussione seria. Avevamo una grande scuola che è passata in secondo piano. Va riscoperta e adattata ai cambiamenti del calcio. La Serie A ha perso appeal, e va rafforzato».
Serie A che parte domani.
«Con tre favorite, Juve, Milan e Inter, più la Roma che è quella che sul mercato s’è mossa di più, e la cosa ha portato un grandissimo entusiasmo. L’Inter ha fatto 41.000 abbonati, il Milan è poco dietro, segnali positivi. La A resta sempre affascinante, e ultimamente è anche combattuta. È un torneo nel quale la tattica la fa da padrona e sinceramente non so dire chi lo vincerà. Quello che posso dire è che negli ultimi 6-7 anni anche la Serie A si è evoluta e il modello di calcio offerto è migliorato».
Col successo del Madrid nella Supercoppa le squadre della Liga hanno vinto 34 dei 67 trofei europei disputati in questo secolo, l’Inghilterra è a quota 13, Italia e Germania terze a 6.
«La conferma di una tendenza precisa: la Liga è un campionato eccezionalmente competitivo. Io ricordo che affrontando le spagnole, con un grande Milan o con la nazionale, ho fatto chilometri rincorrendo la palla, ce l’avevano sempre loro. Ed è per questo che da tempo volevo venire qui ad allenare».
Che si può dire di Ancelotti?
«C’è un aspetto trascurato che lo rende unico: ha allenato 4 generazioni, tra l’altro in un’epoca di mutamenti rapidissimi, e ha sempre trovato la chiave giusta. Si dice che il calcio è cambiato radicalmente negli ultimi 10-15 anni, e Carlo allena da 30. E non penso solo a questioni tecniche o tattiche, ma alla mentalità dei giocatori, dei giovani, al mondo in cui viviamo. E poi attorno a Carlo non c’è mai una polemica, nessun giocatore o agente parla male di lui: è il più grande per tutte queste cose».
Chiudiamo col mercato.
«Abbiamo preso Castillejo, Lino e Nico dal Barça. Abbiamo perso Guedes e speriamo di rimpiazzarlo, però qui c’è un controllo preciso in termini economici: il Barça domani inizia la Liga e deve ancora iscrivere vari giocatori, è inutile comprare qualcuno che non ti puoi permettere. Nel tunnel di Mestalla c’è una grande foto di Ranieri: mi piacerebbe stare qui un po’ di tempo e far qualcosa di buono. Economicamente siamo limitati, ma a entusiasmo e voglia di lavorare non ci batte nessuno. Il campo ci dirà dove possiamo arrivare».
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