Intervistato da Tuttosport, Adriano Galliani ha parlato di Milan, Monza e della pessima condizione del calcio italiano.

Buongiorno Senatore Galliani, il Monza ha per ora totalizzato undici innesti: una campagna acquisti notevole.
«È un mercato figlio di un mio modo di vedere le cose: la Serie C è uno sport, la Serie B è un altro sport e la Serie A è un altro sport ancora. E la Champions è ulteriormente un altro sport. Io sono appassionato di basket e so che ci sono: il campionato italiano, l’Eurolega e la Nba, cioè tre sport diversi l’uno dall’altro. Noi abbiamo preso il Monza che fino al 30 giugno 2017 era nei Dilettanti, era chiaro ed evidente che i giocatori che c’erano non avrebbero vinto la Serie C, quindi con tutto l’affetto e la riconoscenza, li abbiamo dovuti cambiare. Così, oggi, dobbiamo cambiare alcuni di quelli che hanno vinto la B, molti dei quali farebbero fatica in Serie A. È chiaro che la politica è cambiata: quando hai una squadra stabile ai primi posti, come era il nostro Milan, ti bastano due o tre ritocchi, ma cambiando categoria ogni anno è necessario cambiare. Io sono innamorato di ogni sport e ho capito che le asticelle si alzano».
Il Monza ha scelto in modo netto gli italiani. Provo a ipotizzare un ragionamento “alla Galliani”: quest’anno gli stranieri, con il Mondiale a novembre/dicembre, inizieranno a farsi i fatti loro a ottobre e per un mese dopo il Mondiale saranno cotti, quindi prendiamo più italiani che si può. Giusto?
«Innanzitutto dico che nel caso in cui ci fosse un vantaggio ad avere italiani, mi dispiace moltissimo aver[1]lo, perché saltare due volte i Mondiali è pazzesco. Avrei preferito vedere stancarsi gli italiani in Qatar. Comunque, la nostra scelta italiana parte da altri presupposti: è una filosofia precisa del presidente Berlusconi, che io condivido. Gli stranieri impiegano del tempo ad ambientarsi, quindi essendo la prima parte della stagione molto compressa, con moltissime partite, il rischio è che prima che si ambientino noi siamo già retrocessi. Certo poi c’è anche il fattore Mondiale che può distrarre».
Gli italiani ci tengono di più, è vero?
«Gli italiani se arrivano dal tuo settore giovanile hanno un’affezione alla maglia maggiore. Ricordo sempre con affetto Cesare Maldini quando veniva in sede, mi chiedeva molti soldi per Paolo, impiegavo molto tempo per trovare un accordo economico e lui usciva dalla stanza dicendomi sempre: “Non ti preoccupare che io non lo porto via da qui”. Capita la differenza? Tra l’altro Paolo venne poi assistito dal dottor Beppe Bonetto, a proposito di Torino… Prima dirigente granata, poi procuratore cui mi lega un ricordo di nostalgia, stima e affetto. Un gentiluomo del calcio e diciamo che c’era uno stile, chiamiamolo… diverso rispetto a oggi».
È molto peggiorata la situazione?
«È cambiata… Usiamo verbi più neutri, è… cambiata».
Di procuratori oggi ce ne sono molti di più.
«Sì, tanti di più e hanno acquisito molto più potere. È cambiato il calcio, figlio della Bosman e dei diritti tv, che sono quelli che hanno veramente cambiato il calcio e, di fatto, ammainato le famose bandiere».
In che modo?
«Partiamo dagli Anni 60: i ricavi di un club erano solo ed esclusivamente da botteghino. Non c’era sostanzialmente nient’altro. E se vendi solo i biglietti: i 60mila di Madrid valgono i 60mila di Lisbona e di Glasgow. Poi arrivano i diritti televisivi: il campionato inglese ricava 4 miliardi di sterline e quello scozzese 100 milioni, è chiaro che – a parità di sessantamila spettatori – la cosa cambia un bel po’. I fatturati che una volta erano simili fra di loro, diventano abissalmente diversi e questo fa sì che i campioni si concentrino dove ci siano i soldi, perché il calcio lo fai con i fatturati. I venti club inglesi fatturano quasi quattro volte i club italiani».
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E adesso l’Italia non è più un campionato di arrivo, ma di passaggio.
«Esatto. Adesso protestano perché non riesci a trattenere De Ligt, ma come fai? Quando qualcuno mi dice che io ero bravo racconto quando nel 1990 ho fermato Van Basten, andò così: il Barcellona gli fa un’offerta e lì c’era il suo maestro Johan Cruyff, io gli ho potuto fare un’offerta più alta perché il Milan all’epoca era più ricco del Barcellona. Con il grande Milan abbiamo vinto 8 volte il Pallone d’Oro e per due anni abbiamo occupato tutto il podio. Kakà, nel 2007, è stato l’ultimo giocatore a vincere il Pallone d’Oro giocando in un club italiano e sarà l’ultimo forse per sempre, perché non vedo come possa stare nel nostro campionato un potenziale vincitore del Pallone d’Oro. Forse se l’Italia vincesse i Mondiali…».
Oggi dominano gli inglesi.
«I venti club inglesi di Premier fatturano quasi quattro volte tanto i venti italiani di Serie A. Il Monza prende 33 milioni di diritti televisivi di cui 3 devono andare come obolo alla B. Totale: 30 milioni. Una neopromossa in Premier incassa 160 milioni. Come faccio io a competere con il Nottingham Forest? E come faccio a fermare una tendenza dell’economia mondiale?».
In che senso?
«Nel senso che il denaro americano è rimasto lì dov’era, mentre quello dell’Europa Occidentale si è spostato a Est e in Asia. Il vantaggio del campionato inglese è il reddito di chi lo guarda. La lingua e le affinità culturali contano nella scelta di quale campionato seguire, per cui se la Liga ha il vantaggio di avere quasi un miliardo di persone che parlano spagnolo, ha lo svantaggio che queste sono soprattutto in Sudamerica e quindi pagano molto meno per i diritti tv rispetto ai paesi anglofoni. Il tracollo economico del calcio italiano è soprattutto dovuto alla vendita dei diritti esteri, perché a livello domestico teniamo ancora botta. Ma non aver saputo seguire il mercato e aver ridotto quei ricavi dai diritti esteri è il nocciolo del problema. Per fortuna vedo che in Lega lo hanno capito tutti e si stanno muovendo per provare a fare qualcosa, resta il fatto che il calcio segue l’andamento dell’economia del Paese e anzi, rispetto a certi indicatori merceologici, ha tenuto meglio. L’Italia negli ultimi vent’anni ha perso molto: la nostra Borsa valeva il 2% delle borse mondiali, ora lo 0,5%».
La Superlega o una sorta di campionato europeo potrebbe essere la risposta allo strapotere inglese?
«Sì, ma senza inglesi però. Dovrebbe esserci una Brexit anche nel calcio. Chi glielo fa fare agli inglesi di mollare 4 miliardi all’anno, più gli stadi sempre pieni? Sarebbe quindi un vero campionato europeo, senza inglesi. D’altra parte cosa pensate, che nell’aprile 2021 gli inglesi siano fuggiti dalla Super League perché i tifosi non volevano? Ma va! Perché non lasci quella situazione economica».
Nel basket però c’è l’Eurolega.
«Nel basket ci sono riusciti e l’Eurolega ha i club come azionisti. E Milano gioca tutti gli anni anche quando non vince lo scudetto, perché ha le strutture ed è azionista dell’Eurolega, che in fondo è giusto».
L’Uefa invece è nello stesso ente regolatore ed ente organizzatore e venditore dei diritti. E ha varato regole finanziarie che rischiano di ampliare molto la differenza fra ricchi e poveri.
«Ma che roba è quella del 70%? Puoi spendere solo il 70% di quello che ricavi… Se ci fosse stata quella regola quando abbiamo preso il Milan, non ci sarebbe stato il grande Milan. Così il divario si amplierà, perché chi ricava di più adesso può spendere di più, quindi ricaverà di più in futuro. E, come nella società, i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri. Anche perché le vittorie danno fatturato attraverso sponsor e incassi. E il calcio si fa con il fatturato».
Però c’è stato un momento, nel 2003, in cui l’Italia piazzava tre squadre nelle prime cinque della classifica dei ricavi della Deloitte. Cosa è successo da allora ad oggi?
«Non abbiamo costruito gli stadi. Abbiamo gli impianti più brutti d’Europa e questo incide sui ricavi e sui diritti tv, perché uno stadio brutto e vuoto non si vende in tv. E non abbiamo costruito gli stadi perché la burocrazia ha frenato tutti, perché il Credito Sportivo per un lungo periodo chiedeva la costruzione della pista d’atletica e perché ci sono sempre mille ostacoli come a San Siro, per esempio. Io ho aderito a San Siro per questo, perché amo il Meazza e sono un romantico, ma non si può ristrutturare e trovo giusto costruire quello nuovo nella stessa zona. Come all’estero hanno sempre fatto, senza troppi problemi, ma non voglio predicare…».
Gli Agnelli festeggeranno i 100 anni di proprietà: quanto conta essere una dinastia in un club?
«Cito Fedele Confalonieri che un giorno mi disse: “Vedi, gli Agnelli non sono la storia d’Italia, ma la geografia”. Perché nella storia i personaggi vanno e vengono, mentre i fiumi, le montagne, i mari sono sempre lì. Avere proprietà così lunghe conta. Conta tantissimo. I giocatori captano certe cose e vengono influenzati».
In che senso?
«Prenda la campagna acquisti. Se vendi la stella della squadra, il resto dei giocatori si sentirà meno sicuro, se compri una stella aumenterà l’autostima di tutti. I giocatori a seconda delle condizioni psicologiche possono darti 10, 20, 30 o 100. Marlon, per esempio, ha cambiato in meglio l’umore della squadra».
Pogba è tornato per ragioni di cuore. Le ricorda Kakà?
«Per certi versi sì, qualcosa di romantico o, più che altro, un ritorno in un ambiente dove ci si è trovati bene. Ah, che rimpianto Pogba: non volli pagare una commissione folle al mio amico Mino e così andò alla Juventus».
Allegri è un suo grande amico. Cosa pensa del fatto che sia così divisivo nel pubblico juventino?
«Allegri è come Trapattoni: pensa che, giustamente, l’unica cosa che conti sia vincere. Io non capisco perché certi tifosi si affezionino a giocatori o allenatori che non vincono e contestino chi vince. Allegri è un grande allenatore, ma soprattutto è un vincente. E non è vero che fa giocare male le sue squadre».
Stroppa com’è?
«Uno che fa giocare bene le sue squadre. L’ho scelto per questo e anche perché lo conoscevo molto bene dai tempi del Milan. Coetaneo di Maldini, è cresciuto a Milanello, sbocciato a Monzello».
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