Franco Baresi a Radio Rossonera: “Il capitano non è quello che parla, ma quello che fa ciò che è giusto”

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Franco Baresi

I modi sempre pacati, il tono della voce sempre basso quasi a non voler arrecare disturbo a chi ascolta. Franco Baresi si racconta in occasione dell’uscita del suo libro, Libero di sognare (Feltrinelli) intervistato dal nostro direttore Simone Cristao nella cornice di Casa Milan.

Passato, presente e futuro nelle parole del capitano, che parte dalla sua idea di calciatore. “Prima del giocatore c’è una persona. L’aspetto umano è fondamentale. Sono i valori a darti la forza di fare meglio”.

Cos’è il calcio per Franco Baresi?  

È stato tutto sempre. L’avevo dentro questa passione, quando ho scritto questo libro ho voluto scrivere le mie emozioni e i miei sentimenti di avere il pallone tra i piedi.

Sulla libertà che ha contraddistinto la sua infanzia

La fortuna di crescere in libertà, senza pressioni, è importante. L’emozione grande quando sono arrivato al Santa Lucia è stata grande. L’ho provata solamente nell’alzare la coppa, quello è un momento che aspetti tutto l’anno. Dopo tanti anni di città a Milano la campagna fa piacere

Cosa vuol dire essere capitano del Milan?

Il capitano non è quello che parla, ma quello che fa ciò che è giusto fare. Mettersi la fascia al braccio è uno stimolo in più. Io quando l’ho indossata ho cercato sempre di essere me stesso, mettendomi anche nei panni dei miei compagni, anche quelli meno bravi, ed essere sempre di aiuto. I compagni alla fine giudicato per quello che dai: quando la mia prestazione era positiva anche quello dell’intera squadra era positiva

La scomparsa prematura dei tuoi genitori quanto ha cambiato la tua vita?

Perdere troppo presto i genitori ti lascia dentro qualcosa. Mi sono chiuso un po’ di più. Momenti duri che, però, mi hanno fortificato per sempre. Avevo voglia di rivalsa e di non deludere le persone che mi hanno accompagnato in questo momento molto difficile

Il 1982 è stato l’anno della svolta. Perchè?

È stato l’anno della svolta della mia carriera. Dopo aver vinto uno Scudetto nel ’79 gioco in Serie B, poi quell’anno vengo convocato per la prima volta in nazionale ai Mondiali. Torno da campione del mondo e gioco di nuovo in Serie B e proprio nell’82 vengo investito della fascia di capitano. L’anno seguente torniamo in Serie A, poi arriverà Sacchi. Quello è stato l’anno della mia ascesa

Che cosa è per te il Milan?

Il rapporto con questa società dura da quando avevo 14 anni anche perché è stata la mia ancora di salvezza: mi ha aspettato, mi ha fatto crescere e mi ha fatto diventare quello che sono. Il Milan per me è come una seconda famiglia. Sono ancora nel club dopo ancora una vita, posso solo dire grazie. Sono rimasto sempre serenamente senza essermi mai pentito di niente

Il Milan di Pioli assomiglia a quello di Sacchi?

Oggi al Milan c’è un bell’ambiente con tanti giovani che hanno voglia di stupire e i risultati sono lo specchio di un bel gruppo. Dopo il lockdown è riuscito a compattare il gruppo e a coinvolgere i giocatori nel modo giusto. L’allenatore riesce a tirare fuori il meglio dai calciatori e insieme riescono a proporre un calcio propositivo, di livello, coinvolgendo tutti, dai più giovani ai meno giovani

Sull’aspetto umano

Non dobbiamo mai scordare che prima del giocatore ci sia la persona. L’aspetto umano è alla base, è quello che ti fa fare la differenza nell’attaccamento, nella prestazione, nella solidarietà, nella disponibilità tirando fuori tutti quei valori che ti danno la forza di fare meglio

Il ritorno in nazionale

Avevo già 32 anni e non ci eravamo qualificati per gli Europei. Era appena arrivato Sacchi che stava formando un nuovo gruppo e pensai che da una parte non potessi fare sia Nazionale sia club d’accordo con il Milan. Poi tornai anche grazie a Sacchi, Matarrese e Galliani che mi convinsero anche se non è che tornai a malincuore, ma tornai convinto di poter fare due anni bene fino al Mondiale del ’94

La finale mondiale del ’94

La squadra soffriva ma dimostrava di avere un grande carattere. Non pensavo di giocare vista l’operazione al menisco ma tra squalifiche e infortuni di alcuni miei compagni Sacchi ebbe il coraggio di mandarmi in campo. Conoscendomi sapeva che se avessi detto che me la sentivo avrei dato tutto e sapeva quel che avrei potuto dare. È chiaro che dentro di me ci fossero delle paure: giocare una finale dopo che la squadra era arrivata fino lì era una responsabilità ancora maggiore

Cosa ti senti di dire ad un giovane?

Qualunque cosa facciate spero la amiate senza mai smettere di sognare perché a volte i sogni si avverano come è capitato a me. Mai avrei immaginato quando avevo 8 anni di vincere tutto. Nel calcio come in ogni professione bisogna impegnarsi con dedizione senza mai dimenticare l’aspetto umano.

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