Intervistato questa mattina dalla Gazzetta dello Sport, l’ex giocatore di Inter e Atalanta tra le altre Angelo Domenghini ha parlato dell’Euro derby in semifinale di Champions League: chi andrà in finale tra Milan e Inter?

Domenghini volava. E’ partito dal nulla…
«Non avevo niente, ho vinto tutto. Mio padre aveva un’osteria, eravamo in nove fratelli, sei femmine e tre maschi. Eravamo molto poveri, dormivamo in nove in due camere».
E lei non era certamente un angelo. No?
«Io facevo diventare matti tutti. A tredici anni ero uno senza legge, dormivo nelle stalle, fumavo le pagine dei giornali vecchi, andavo a raccogliere uova nei nidi delle rondini sui cornicioni della chiesa. Rubavo la frutta ai contadini e mi inseguivano fino a casa, all’osteria».
Ala destra, volava sulla fascia. Puntava l’uomo e segnava. Oggi l’uomo è puntato un po’ meno. O no?
«Sono cambiati i tempi, le tattiche, la gestione degli spazi. Io lo facevo in modo largo, le ali italiane eravamo io e Bruno Mora del Milan e andavamo dritti sul nostro avversario per creare la superiorità numerica. Spesso ci riuscivamo. Adesso? Pochi. C’è Leao, c’è Kvara: bravissimi, fuoriclasse. Uno è in semifinale di Champions, l’altro ha vinto lo scudetto con il Napoli».
Derby Champions con Leao e Lukaku. Chi volerà in finale tra Inter e Milan?
«Eh, qui ci vuole la sfera. Il derby è sempre il derby. Io ne ho fatto qualcuno e so cosa significa. Una cosa che ti prende lo stomaco, un’emozione veramente forte. Una volta segno al Milan e uno della tv mi chiede: “Domenghini, ci parli della sua ciabattata”. L’avrei mangiato. La storia della “ciabattata”, inventata da Gianni Brera dopo un gol, mi ha perseguitato. Potevo segnare di testa, al volo, in rovesciata, di tacco. Ma era sempre ciabattata, era diventato un luogo comune».
La carriera del Domingo non è comune…
«Un buon percorso professionale. Occhio, cerchiamo di capirci. Io non voglio lamentarmi, né fare discorsi di confronti. Ma di riconoscimento e riconoscenza. Il calcio mi ha dato moltissimo: successo, notorietà, benessere. Non mi ha tolto niente, o poco. Ho vinto tanto. Con l’Atalanta nella mia Bergamo. Con l’Inter, con la Nazionale e con il Cagliari. Certo, lo scudetto di Cagliari è tutta un’altra cosa, una dimensione diversa. E’ stata la vittoria di una città, di una regione, la vittoria della gente, un calore unico e indimenticabile. Io adesso sono qui, in Sardegna, in un buon posto, a cento metri da un mare stupendo e lo devo al calcio e al Cagliari. L’unico, triste rammarico è che molti compagni e amici si sono staccati e persi. Io ascolto, sì, i miei acciacchi, ma penso ai miei figli, ai miei quattro nipoti e guardo il mare».
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