In una lunga intervista su Sportweek, Daniel Maldini si racconta tra il Milan, lo Spezia e ovviamente il rapporto con papà Paolo.

Vi incontrerete, subito prima del fischio d’inizio?
“Certo. Ci vedremo allo stadio”.
Timido, riservato e tranquillo. E poi?
“Di sicuro buono. E mi piace stare tanto con gli amici, farei di tutto per loro”.
Nessuna trasgressione? Impossibile, dài…
“Sì, quello sì. Da piccolo ero vivace, pure troppo. A scuola era un casino. Elementari, Medie… Andavo per divertirmi e non per imparare. Io e lo studio non ci siamo mai presi tanto, purtroppo”.
Ricordane una che si può raccontare…
“Impossibile scegliere. Sono state davvero troppe”.
I prof convocavano i tuoi?
“Mamma mia… Ma non è che mancassi di rispetto ai professori, il problema era che non stavo fermo e zitto. Però non ho mai perso un anno. Diciamo che sono stato aiutato, o forse semplicemente capito”.
Insomma eri un ribelle?
“Ma no, è che non pensavo a niente. Anzi, quel che pensavo, facevo. Anzi, probabilmente non pensavo a quello che facevo”.
Ricordi il primo pallone?
“Sinceramente no. Ricordo qualche spezzone dei primi allenamenti al Vismara, dove si allenano le giovanili del Milan. Io stavo già coi più grandi. Ricordo il freddo, quello sì”.
E la prima partita vista dal vivo?
“Anche qui, spezzoni. La finale di Champions del 2007 ad Atene contro il Liverpool, per esempio”.
Parlavi di amici: uno nel calcio?
“Nicolò Rovella. All’inizio era odio-amore, più odio che amore. Sarà che eravamo avversari in campo, ma, insomma, non mi piaceva tanto. C’era una specie di astio senza conoscerci davvero. Poi un amico comune ci ha fatti incontrare fuori dal campo e adesso ogni volta che torno a Milano ci vediamo. Abbiamo la stessa compagnia”.
E tra i vecchi compagni del Milan?
“Mi vedo spesso con Leao e Saelemaekers. Rafa mi fa ridere perché non pensa a niente. Zero, zero, zero. È bello stare con lui. All’inizio portavo lui e Alexis in giro per Milano per fargli conoscere la città, i posti dove andare, i miei amici… È finita che Saelemaekers usciva da solo con loro”.
Ti aspettavi l’esplosione di Leao?
“Sì. Ha fatto lo scatto in avanti quando ha capito di essere così forte”.
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L’11 ottobre hai compiuto 21 anni: ti senti ormai un adulto?
“Sì”.
Cosa te lo fa credere?
“Diciamo che mi sento un ragazzo, ma con delle responsabilità”.
Quali?
“Come giocatore, cercare di fare il meglio per la squadra. Come uomo, essere un buon amico. Sicuramente, per il fatto di essere uscito da casa, mi sento più responsabilizzato rispetto a prima. Certe cose che davo per scontate adesso non lo sono più”.
Vivi da solo?
“Col mio miglior amico, Andrea. È venuto con me da Milano. Mi dà una grossa mano in casa. Con la cucina, per esempio: lui è quello bravo”.
E mamma che dice della tua autogestione?
“Tiene tutto sotto controllo. Ma è soddisfatta”.
Quali raccomandazioni ti fa lei, e quali tuo padre?
“Mamma mi raccomanda di stare attento fuori dal campo, ma ormai c’è poco da raccomandarsi. A La Spezia sto bello tranquillo, era peggio a Milano… Papà mi chiede come va in squadra, come lavoro in allenamento”.
Al telefono senti più uno o più l’altra?
“Mia madre almeno una volta al giorno. Con papà ci sentiamo, sempre dopo le partite”.
Cosa hai conservato della spensieratezza adolescenziale?
“La voglia di divertirmi, in campo e fuori. Gira tutto intorno a quella”.
E cosa credi di aver perso?
“Niente, penso. Magari non me ne sono accorto”.
Da bambino avevi un sogno ricorrente, anche fuori dal calcio?
“Le solite cose: giocare in A, in Champions, arrivare in Nazionale… Non è che sognassi qualcosa di preciso e in maniera ossessiva. Sono andato avanti passo dopo passo”.
Il pallone è stato per te una strada obbligata?
“Assolutamente no. Ho iniziato a giocare perché l’ho chiesto. E l’ho chiesto perché era la cosa che mi piaceva di più”.
Dove hai cominciato?
“In casa e fuori. In casa, con papà e mio fratello Christian, abbiamo continuato fino a poco tempo fa. Quanti disastri abbiamo combinato…”.
E mamma?
“Io ero il più piccolo e gli altri due davano la colpa a me”.
Oggi cosa sogni?
“Vorrei che tutti vedessero quel che posso fare su un campo da calcio”.
E cosa puoi fare?
“Probabilmente quello che non ho ancora dimostrato”.
Cosa ti manca per dimostrarlo?
“Boh… Mi manca qualcosa. Adesso mi sento già meglio, più sicuro di me, più pronto”.
È una sicurezza che ti viene da dentro?
“Sì. E dal fatto di confrontarmi in una realtà diversa da quella cui ero abituato al Milan”.
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L’impressione che davi già nella Primavera rossonera è che ti accendevi e spegnevi alla stessa velocità. Mezz’ora a tutta in cui eri quasi immarcabile, poi l’eclissi improvvisa.
“Vero”.
Perché non sei diventato difensore come tuo padre? Troppo più bravo con la palla tra i piedi?
“No, no. Non mi è mai piaciuto difendere. Mi è sempre piaciuto avere il pallone. Ho fatto il trequartista, l’esterno d’attacco, la mezzala. Il ruolo preferito è il primo, ma fare la mezzala non mi dispiace per niente”.
Il tuo papà ha raccontato al Corriere della Sera quanto sia stato pesante da giovane portare il cognome Maldini. Per te lo è altrettanto?
“È certamente diverso che averne un altro, ma dipende da come la vivi. Io la vivo bene. Ho imparato a viverla bene. A volte è più pesante, altre è più facile. Come tutte le cose, ha i suoi pro e i suoi contro”.
Quante volte hai sentito dire: “Quello gioca solo perché è il figlio di”?
“Uff… Non credo smetterà mai. Ovvio, dipende anche da me che finisca. Conta sempre chi le dice, certe cose. A volte ho pensato: magari è vero. È vero e io non me ne accorgo. Ma la maggior parte delle volte me ne sono fregato”.
Paolo ha detto anche: “Christian e Daniel sono come me: non si aprono col loro papà”.
“È vero. Mi confido più con mia madre, ma, anche senza volerlo, parlo di più con gli amici. Sarà una questione d’età. Con papà è un rapporto fatto di sguardi, silenzi… E di risate. Ridiamo per tutto. Basta veramente poco. È sufficiente per dire che tra noi due c’è complicità?”.
E ancora, tuo padre: “Noi siamo quello che sono stati i nostri genitori”. Tu in cosa pensi davvero di somigliargli?
“Non mi viene in mente niente che mi faccia dire: questo lo faccio uguale a lui. In campo, forse il modo di muovermi. Fuori, ci somigliamo come carattere. Penso di avere personalità, nel modo di pormi con le persone”.
In campo in quali occasioni provi fastidio?
“Quando non mi diverto”.
E hai mai avuto la sensazione di prendere più calci per il fatto di chiamarti Maldini?
“Sì, è successo. Ma così diventa più divertente”.
Hanno mai cercato di usarti per arrivare a tuo padre?
“Sì, ma non mi cambia tanto. Anche qui, dipende da chi me lo chiede”.
“Si soffre più a essere figlio che padre di un calciatore”. Sempre parole di Paolo. Daniel, tu hai sofferto per il fatto di essere figlio del grande Maldini?
“No. Devi accettare la situazione. Ci saranno stati più “contro” che “pro” quando ero piccolino, ma finché vivi sereno… Forse io e Christian ne siamo stati condizionati, ma inconsciamente”.
Papà ha raccontato, a proposito dei confronti tra lui e suo padre Cesare: “O mollavo, o provavo a essere sempre uno dei migliori. Mi caricavo immaginando i commenti dei genitori dei miei compagni”. Vale lo stesso per te?
“Io l’ho presa in modo un po’ diverso. Il paragone mi caricava, ma specialmente mi divertiva”.
Ti sei mai sentito trattato bene per il solo fatto di essere un Maldini?
“Certo. Ho imparato a selezionare le persone. Ai miei amici interessa Daniel, non Maldini”.
Da cosa lo capisci?
“Dal fatto che ci sono sempre. Ci sentiamo ogni giorno, e quando torno a Milano sto quasi più con loro che coi miei”.
Cosa ti ha dato allenarti ogni giorno con Ibra, Kjaer e Giroud, i grandi vecchi dello spogliatoio milanista?
“Ti fa andare di più anche se non te ne accorgi. Soprattutto Ibra ti sprona fino a insultarti, ma non te la prendi perché sai che lo fa a fin di bene. Poi finisce l’allenamento e recupera. Ti viene vicino, ti abbraccia. Certo, quando è arrivato nessuno voleva fare le partitelle nella sua squadra. “Speriamo che oggi non tocchi a me”, ci dicevamo”.
Cosa ti diceva Pioli?
“Pioli mi aiutava a star sereno, era sempre disponibile, mi spiegava come muovermi in campo. L’anno scorso a un certo punto qualcuno tra noi ha iniziato a parlare di scudetto, gli altri dicevano “no, no”, ma si vedeva che in cuor nostro ci credevamo tutti. Poi quando vinci contro le altre grandi, capisci che una volta può andarti bene bene, ma non sempre. Quello era un gran gruppo. Non vinci lo scudetto se non crei un gruppo unito. Si sta proprio bene in mezzo ai miei ex compagni”.
E ora il tuo Spezia come può uscire dalle zone basse della classifica?
“Cominciando a far punti fuori. In casa siamo tosti per tutti, fuori non solo non facciamo gol, ma neanche tiriamo in porta. Ma sono anche mancati per infortunio gli uomini di qualità: possiamo tirarci su”.
Daniel, cosa avresti dato per non aver dovuto rispondere in questa intervista a domande su tuo padre?
“Tanto. Tutto”.
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