Intervistato da Sportweek, Massimo Ambrosini ha parlato del suo Milan dopo l’uscita del docufilm DAZN “Stavamo bene insieme”.

Il film si apre con una tua frase: “Mi emoziono ogni volta che vedo San Siro”. Ricordi la prima volta in cui ci mettesti piede?
“Fu proprio per un Milan-Juventus, valido per il Trofeo Berlusconi. Ero appena stato acquistato dai rossoneri. Ricordo perfettamente il momento in cui salgo le scale che dallo spogliatoio portano al campo e passo dal grigio dei gradini al verde del prato illuminato dai riflettori. Il primo pensiero fu: “Io qui non ci potrò mai giocare perché c’è troppa gente. È troppo per me” (ride). Venni travolto dalla bellezza di ciò che avevo intorno”.
Cos’è che rende speciale San Siro?
“La sua architettura. La disposizione dei tre anelli, le luci che cadono dall’alto… Già da fuori offre una senso di maestosità”.
Se per Inter e Milan lasciarlo è una necessità, abbatterlo è una forzatura?
“Penso che le due cose vadano insieme: lasciare San Siro è purtroppo una necessità, abbatterlo ne è la conseguenza se si vuole restare nell’area dove oggi sorge il vecchio impianto”.
E cosa invece rendeva speciale il tuo Milan, quel Milan che nel giro di quattro anni disputò tre finali di Champions?
“Stavamo bene insieme, come recita il titolo del film. Quando fai parte di un gruppo, sei obbligato a stare insieme agli altri. Ma questo obbligo non fa diventare automaticamente di qualità il tempo condiviso. Essa viene determinata dalla qualità delle persone. Dal carattere, dalla disponibilità, dall’umiltà e dalla condivisione dei momenti, sportivi e privati. Quel Milan aveva un’attitudine al lavoro, al sacrificio e all’accettazione dei reciproci difetti e differenze, che l’ha reso speciale. Eravamo persone diverse nella visione del calcio e della vita, ma questo non ci ha impedito di incontrarci, riconoscerci e di scendere a compromessi, in campo e fuori, che hanno contribuito a farci vincere tanto”.
Ti sei mai chiesto se questo processo di accettazione dell’altro è più facile in uno spogliatoio di campioni?
“Essere campioni implica la presenza nell’individuo di valori morali di un certo tipo”.
Gattuso, Inzaghi, Maldini, Nesta e Pirlo: sono stati compagni, amici, famiglia?
“Il termine “famiglia” viene usato anche nel film, ma io ho una concezione della famiglia un po’ più alta. Sono stati compagni, certo, compagni di un viaggio professionale e umano. E amici sicuramente”.
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Una definizione per ciascuno di loro: Gattuso.
“Il compagno che avresti sempre voluto al tuo fianco”.
Inzaghi.
“Pippo era quello che quando c’era da mettere il timbro importante, non solo in partita, lo faceva”.
Maldini.
“È sempre stato il papà del gruppo. Da lui ci sentivamo protetti. Col tempo questa sensazione si è un po’ affievolita e le distanze si sono ridotte, perché da una parte noi crescevamo, dall’altra lui ha iniziato ad assorbire la nostra spensieratezza e goliardia”.
Nesta.
“Istintivo e razionale”.
Pirlo.
“Il genio timido. Aveva intuizioni brillanti in campo e fuori”.
Del tipo?
“Era geniale nelle sue battute, nei modi di fare, nelle prese in giro a Gattuso. Non ti aspettavi che uno come Andrea prendesse per il culo Rino, invece lo faceva e in risposta si beccava le forchettate in testa a tavola”.
Il più scaramantico.
“Inzaghi. Metteva le mutande con cui aveva segnato quando ancora stava nella Primavera, la maglia della salute con cui aveva segnato un gol decisivo…”.
Il più spiritoso.
“Rino. Quando era in forma faceva ridere”.
Il più permaloso.
“Sempre Rino, più che altro perché gli scherzi erano sempre rivolti a lui. Portava il pesce dalla sua pescheria, lo faceva cucinare dai cuochi di Milanello, e noi, puntualmente, da tavolo a tavolo: ‘Ragazzi, oggi ’sto pesce non è granché, vero?'”.
E lui?
“Aho’, ma che cazzo dite?!”.
Il più competitivo, quello che non ci stava a perdere neanche a carte?
“Tutti. Un segreto delle nostre vittorie è che eravamo capaci di menarci nella più inutile delle partite di allenamento. Questo ci ha permesso di alzare il livello. Il “peggiore” di tutti era Shevchenko”.
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Delle tre finali, quale vigilia fu la più sentita?
“Proprio quella contro la Juve. Perché era la prima dopo tanto tempo e perché giocavamo contro una squadra italiana. Stavamo in un hotel con i campi da golf davanti. Facemmo delle interminabili passeggiate sul green per allentare la tensione”.
Dell’intervallo della finale di Istanbul col Liverpool, col Milan in vantaggio 3-0, si è detto di tutto.
“E si è detto un mare di cazzate. La verità è che nei primi cinque minuti, seduti negli spogliatoi, noi giocatori litigavamo. C’era la volontà di finire il lavoro e si discuteva sul come farlo nel modo più rapido e sicuro. La tensione era altissima, altro che risate e canti come qualcuno si è divertito a raccontare. Intervenne Ancelotti: “Basta, avete stufato, adesso state zitti perché vi dico io due cose da fare”. Rientriamo in campo e il secondo tempo riparte da dove era finito il primo: dominio assoluto da parte nostra. Poi in un quarto d’ora succede che loro ce ne fanno tre e pareggiano. Ricominciamo ad attaccare, fino alla parata miracolo di Dudek su Shevchenko all’ultimo minuto dei supplementari. Dudek stesso, anni dopo, disse che una forza ultraterrena aveva sollevato il suo gomito a deviare la palla scagliata da un metro. Io so che ancora non ci credo…”.
Due anni dopo, nel 2007, la rivincita.
“Eravamo felici di averli ritrovati. Vedi com’è il calcio: perdi una finale giocando la tua miglior partita, giochi normale un’altra finale e vinci. Se vogliamo romanzarla, ci fu restituito quello che ci era stato tolto. Ma non ci era stato restituito a gratis: la rivincita col Liverpool ce l’eravamo guadagnata eliminando Bayern e United”.
Detto che il calcio è cambiato e che i ricchi oggi stanno altrove, quali condizioni devono realizzarsi perché il Milan attuale si avvicini almeno a quello dei tuoi tempi?
“Il percorso tecnico è quello giusto, ha basi solide. A queste basi servirebbe aggiungere giocatori di livello, per i quali servono soldi. E per avere soldi, visto che in Italia i diritti tv valgono un quarto rispetto a quelli venduti dalla Premier, l’unico modo è lo stadio di proprietà”.
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Oggi c’è Milan-Juve: da quale parte pende la bilancia?
“Nettamente dalla parte del Milan. Al di là del risultato di stasera, il percorso fatto, le scelte societarie e tecniche prese hanno portato il Milan avanti. Non bisogna mai dar la Juve per morta, ma dal punto di vista strategico il Milan parte davanti”.
Con Allegri hai vinto uno scudetto: lo riconosci nell’allenatore che fa fatica ora alla guida dei bianconeri?
“Sta avendo difficoltà a capire che l’ambiente che ha trovato è diverso da quello che aveva lasciato. La Juve con cui ha vinto cinque scudetti era fatta da grandi giocatori che avevano idee e una forza anche interiore superiore a questa, un po’ meno pronta. Le difficoltà di Allegri dipendono insomma anche dal materiale che si è ritrovato. Ma questo non vuol dire che la Juve non sia attrezzata per primeggiare”.
A chi somiglia Leao?
“Pioli lo paragonò ad Henry: ha ragione. È un auspicio affinché Leao faccia un ulteriore salto di qualità a livello realizzativo, diventando un grande attaccante come è stato Henry”.
A proposito: conoscevi Pioli? E ti aspettavi che diventasse finalmente un allenatore vincente?
Non lo conoscevo di persona. È figlio di un calcio moderno, in continua evoluzione. Bravissimo nel proporre cose sempre nuove senza confondere i giocatori. Se guardi gli ultimi due anni e mezzo, il Milan non ha mai attraversato un vero momento di difficoltà”.
È sbagliato paragonare De Ketelaere a Kaká?
“No. La suggestione del paragone ci sta. Kaká era più potente nella sua progressione, ma De Ketelaere è un finto lento. Ha forza e tecnica, tiene botta sul primo contatto e poi va, come faceva Kaká. Gli va dato tempo per osare di più. Deve finire l’apprendistato”.
Più forte la coppia Gattuso-Ambro o quella Tonali-Bennacer?
“Io e Rino, nettamente (ride). Sul serio: loro sono il prodotto del calcio attuale, che ai centrocampisti davanti alla difesa chiede molte più cose di quante ne facessimo noi. Io e Gattuso eravamo circondati da compagni di tale qualità, che il nostro compito principale era recuperare palla e consegnarla a chi potesse farne buon uso”.
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