Intervistato dalla Gazzetta dello Sport, il difensore dell’Inter ex Milan Francesco Acerbi racconta il periodo nero passato con la maglia rossonera.
Auguri, Francesco Acerbi. Che cosa ha imparato in questi primi 35 anni?
«Che nella vita è sempre necessaria una sfida. A me è servita, prima con mio padre, poi con la malattia. Ora la sfida è con me stesso. Ed è quella giusta, che tutti dovremmo affrontare. Perché è quella che ti fa avere sempre l’ambizione di migliorare».
Che cosa è, un messaggio ai più giovani?
«È un invito a reagire. A farsi aiutare».
In che senso?
«Io l’ho fatto, con uno psicanalista, dopo i due tumori. Mi spiegò come reagire e fare lo step. E poi, ai ragazzi, anche a quelli della mia squadra, dico: circondatevi di poche persone, 2-3 massimo, ma fidatissime. E capite bene cosa volete dalla vita. Fregatevene se giocate o no: date tutto perché prima o poi lo spazio arriverà. Nella sofferenza bisogna combattere. Se invece la reazione manca, anche cambiando squadra si torna allo stesso punto, con gli stessi problemi».
È appena morta la sciatrice Elena Fanchini per tumore a 37 anni. Lei si sente fortunato?
«Sì, certo. Quando ho avuto due tumori, non me ne fregava niente. Sapevo di sconfiggerli. Ero quasi contento. Lo so, sembra un paradosso, ma ero sfacciato. Dicevo: “Ok dai, affrontiamoli”, come una partita. Mi ripetevo: “Non ho paura”. Ma poi ho capito che è impossibile non averne. In realtà, la nascondevo, la tenevo dentro. Adesso ogni tanto penso: “E se il tumore torna? Se arriva una terza volta?”. Se dovesse succedere, sarà un’altra sfida da vincere. In fondo, sono cresciuto sfidando mio padre…».
Che sfida erano, quelle?
«Volevo fargli vedere fin dove ero capace di arrivare. Morì a febbraio, pochi mesi prima del mio passaggio al Milan nel 2012. Dopo la sua morte mi sentii svuotato, il calcio aveva perso significato. Da lì è iniziata la discesa: ero arrogante, gli scarsi erano sempre gli altri. Fino alla malattia, appunto…».
Se avesse avuto la testa di adesso pure da giovane, avrebbe avuto una carriera migliore?
«Un tempo pensavo che con un’altra testa avrei fatto 15 anni nel Milan ad alti livelli. Ma oggi dico di no. Senza la malattia, a 28 avrei smesso. O sarei in B, che ne so, al Cittadella… Con i tumori è iniziata la mia vera carriera: mi hanno dato una seconda possibilità».
Ci spiega lo sguardo al cielo prima di ogni partita?
«Ho una preghiera, tutta mia: è lunga due pagine, ma ci metto 40 secondi a dirla perché la recito a memoria velocissimamente».
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